Nelle sale dal 4 gennaio, il film offre al suo protagonista l’occasione di fare ciò che più gli piace dai tempi de La ricerca della felicità: piangere, nella convinzione che la sofferenza sia la più alta prova d’attore
La sensazione che si prova nel vedere Collateral Beauty è simile a quella di ricevere uno schiaffo che risvegli da un lungo torpore e domandare: “Ma che è successo? Come siamo arrivati a questo?”. La storia incredibile, implausibile e densa di buchi di sceneggiatura di cui non interessa nulla a nessuno, è un inno al melodramma facile, al kitsch dei buonissimi sentimenti che vengono presto schiacciati da altri ancora più buoni, tutto alimentato da un gruppo di attori inspiegabilmente più che rispettabili. Un gruppo tra cui spicca il più noto e “potente” di tutti: Will Smith. E proprio da lui sembra provenire quest’energia kitsch che tutto travolge.
A Will Smith piace tantissimo piangere.
Nonostante sia diventato famoso con una sit-com e poi anche al cinema abbia trionfato a partire da ruoli leggeri in film di genere (Bad Boys, Independence Day), ha sempre nutrito una passione e un desiderio spasmodico per piangere davanti allo schermo. Nella sua testa la prestazione del vero attore è lì, nello sguardo sofferto, nel dramma insolvibile, nel dolore sommesso che esce da due occhi lucidi.
Lo potevamo un po’ intuire (ma bisognava essere bravi) in La leggenda di Bagger Vance, nel godimento con il quale indugiava nelle parti più sentimentali, anche se il vero primo indizio, la scintilla che ha fatto scoppiare l’amore per la lacrima, lo si trova in La ricerca della felicità. Il film in cui Will Smith incontra il “metodo Muccino” (la tecnica con cui il regista italiano strappa performance estreme dai suoi attori) è un punto di non ritorno della sua carriera.
Da quel film, che amava fermarsi sulla sofferenza del suo protagonista, sui silenzi espressivi e sul fisico che subisce il dolore della mente, scavando e cambiando la pelle, le pupille e la barba, si è andati ancora più in basso nell’abisso senza ritorno che è stato Sette anime. A lungo abbiamo dato la colpa a Muccino di quel trionfo di kitsch e melodramma impossibile, invece, con il senno di poi forse è il caso di riconsiderare le forze in campo. Perché senza Muccino lo stesso Will Smith ha in seguito cercato di continuare a battere quel medesimo percorso.
Tracce di questo sentimentalismo assurdo ed esasperato, di questo desiderio di dramma si scorgono nel disastro di After Earth ma anche nel più recente Zona d’ombra e, ad essere maniaci, lo si nota anche nell’esagerato protagonismo con il quale Will Smith è inquadrato, scandagliato e sottolineato nei momenti drammatici di Io sono leggenda.
A Will Smith piace proprio essere ripreso mentre soffre, è la sua idea di una grande interpretazione e deve dare tutto.
In Collateral Beauty non c’è un momento in cui non lo faccia. Ha subito una perdita intollerabile ed è arrabbiato con la vita, i suoi colleghi e amici con cui dirige una start-up non riescono a portare avanti le trattative per la vendita, visto che con lui non si può interagire né discutere poiché si rifiuta di fare qualsiasi cosa, così decidono di estrometterlo nella maniera più inutilmente elaborata possibile.
SPOILER – Assoldano tre attori (Keira Knightley, Helen Mirren, Jacob Latimore) che interpretino gli spiriti del tempo, della morte e dell’amore, e un detective perché riprenda i dialoghi con i suddetti spiriti, i detrattori di Smith cancelleranno in seguito gli attori dalle riprese per convincerlo che non parlava con nessuno ed è impazzito. Insomma, il film è una variazione quanto meno contorta del Canto di Natale dickensiano. A livello tecnologico, se vi state domandando se sia davvero possibile cancellare qualcuno da un video fatto con un cellulare, senza averlo girato con tecniche e soluzione adattate alla cancellazione, la risposta è “No, non si può”.
Ovviamente le cose non andranno proprio come avevano preventivato i tre amici (Kate Winslet, Edward Norton e Michael Peña) in un moltiplicarsi di prese di coscienza, di animi da cambiare, di persone che si scoprono in difficoltà e bisognose d’aiuto. Alla fine tutti, non solo il protagonista, scopriranno di avere traumi e blocchi che non vogliono ammettere, tutti avranno il loro diritto a mostrare la propria sofferenza e soffrire pubblicamente. Però, sia chiaro, a nessuno è consentito farlo con l’intensità di Will Smith, o almeno di essere ripreso con tale convincente centralità ogni volta. Perché a nessuno piace come a lui.
In quel trionfo di sentimentalismo semplice ed ideale che è Collateral Beauty, si respira un po’ d’aria natalizia (complice il freddo, i cappotti e le “visite” di spiriti che sono attori ma forse anche no) e un po’ di atmosfera teatrale (complice l’ambientazione e il linguaggio aulico), un misto di tradizione, fascino e rassicurante tranquillità per non disturbare troppo nessuno con tutti quei drammi. È tutto un convincente e caldo abbraccio, che tiene al sicuro mentre viene elaborato un lutto, una perdita, una morte imminente o quel senso di sconfitta che incombe. Tutto recitato così bene che quasi ci si distrae, almeno fino a che al culmine dell’assurdo non si ritorna in sé per chiedersi come si sia arrivati a questo trionfo di assurdo spacciato per credibile.
Gabriele Niola, Wired