Giuliano Sangiorgi: “La musica italiana è una tragedia: canzoni omologate”

Giuliano Sangiorgi: “La musica italiana è una tragedia: canzoni omologate”

C’è un momento un cui la voce di Giuliano Sangiorgi si rompe. Si parla di amicizia, tema della canzone che ha scritto per il programma di Rai2 «Maledetti amici miei» (il giovedì, a partire da oggi), e il discorso arriva a Lele, il compagno di band che un anno fa ha fatto tremare tutti per un’emorragia cerebrale dalla quale si è poi ripreso in maniera sorprendente. «È l’ombrello che ci ha protetti. Senza di lui avrei smesso. Ne sono certo. Lo ringrazierò per tutta la vita per non avermi cambiato la vita», sussurra Giuliano.

Il racconto della nuova canzone era iniziato su altre premesse. Nel programma Alessandro Haber, Rocco Papaleo, Sergio Rubini e Giovanni Veronesi animano una serata in libertà, goliardia e aneddoti in stile commedia all’italiana, con ospiti. La canzone di Giuliano fa da sigla di chiusura.

Che fa, un brano senza i Negramaro?

«Ho avuto altri progetti paralleli, servono per fare esperienze da riportare nel gruppo. Con La tempesta ho fatto una canzone che durava 1 ora e 10 per uno spettacolo di danza. Ho composto una colonna sonora di Non è un paese per giovani di Veronesi. E comunque se ci lasciassimo ci sarebbe una comunicazione sui social visto che (ride) non sembra più di moda telefonarsi. Comunque la canzone l’hanno già sentita, l’ho mandata nel gruppo whatsapp».

Che hanno detto?

«Ermanno (Carlà, il bassista ndr) ha detto che fa male ma che gli piace. È una ballad romantica ma spigolosa, un pezzo volutamente diverso da quelli che sto scrivendo per il nostro prossimo album».

Come è nata?

«Quasi per ridere. Veronesi mi ha invitato al programma. Mi ha fatto vedere delle cose tra cui la sigla iniziale firmata da Paolo Conte. “A lui hai chiesto un brano e a me chiedi di fare il giullare?”. Ha rilanciato chiedendomi la sigla di chiusura. Mi è venuta in pochi minuti. Il titolo del programma, non solo per il riferimento al film, mi ha suscitato subito qualcosa. Racconto di Giovanni, persona squisita, toscanaccio, rompiscatole di cui non posso fare a meno. È l’artefice di molti danni nella mia vita…».

Nel testo parla di amici che vivono la notte… È il neo papà che parla?

«Non mi distacco mai dalla realtà. Anche quando l’opera nasce su stimolo di un mecenate l’artista non si può staccare da quello che vive, deve fare passare la vita dentro i 3 minuti di una canzone o in una pennellata su una tela. E anche l’epoca che vivi è un committente».

In questa i social sono un’influenza?

«Sì. Siamo tutti veicolati verso i gusti dei social, col rischio di diventare tutti uguali. Per questo mentre scrivo un disco stacco. Più in generale trovo insopportabile la trasformazione di quello che ci accade in meme, riduciamo la nostra vita a una scena buffa, a un gattino, a uno che fa una faccia strana…».

Anche la musica è omologata?

«Quest’estate è stata una tragedia. Non sono contro il reggaeton, ma in Italia c’erano una quindicina di canzoni che potevi cantare una sulla base delle altre. Il giro armonico era sempre lo stesso».

L’amicizia per lei?

«Quella vera esiste. Lo vedo da 20 anni all’interno dei Negramaro grazie anche al fatto che ognuno di noi ha saputo fare un passo indietro».

Avete vissuto assieme, in un casale a Parma. Che ricordi ha del passato cameratesco?

«Otto-nove anni indimenticabili. È stato un trauma quando Ermanno e Danilo (Tasco, il batterista ndr) sono andati a vivere con le compagne: pensavo sarebbe stato per sempre, come quando cerchi di eternizzare un momento della tua gioventù»

Mettere su famiglia fa cambiare l’amicizia?

«Ilaria e io viviamo bene la condizione di genitori. Avere una bimba non ha assolutizzato la nostra vita. Stella è una nuova amica degli amici».

Ha paura della solitudine?

«È bella solo se è una scelta. Quando c’è stato un momento di crisi con la band sono andato a New York: mi sono sentito solo e ho capito il dolore di mamma quando ha perso papà».

Andrea Laffranchi, Corriere.it

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