Enrico Ruggeri: senza la musica non riparte niente. Ma il governo ci trascura

Enrico Ruggeri: senza la musica non riparte niente. Ma il governo ci trascura

Enrico Ruggeri non è da tempo solo più un cantautore ma anche scrittore, conduttore tv e produttore discografico, «ma alla fine racconto sempre storie». Lo potremo rivedere giovedì 3 settembre, in seconda serata, alla conduzione della finale (registrata) di Musicultura all’Arena Sferisterio di Macerata. Appuntamento ormai trentennale che va alla ricerca di giovani cantautori che in questa edizione vuole ricordare anche il suo fondatore e patron, Piero Cesanelli, morto lo scorso settembre. La stessa sera sarà invece su Rai1 come calciatore nella Partita del Cuore che, per la prima volta, si apre alle donne in campo. 

Ruggeri, come giudica i cantautori di oggi? 
«Con grande ammirazione. Perché chi oggi chi si mette lì a scrivere canzoni lo fa per passione, non per rivalsa sociale, altrimenti farebbe il rapper o il calciatore. E quindi cito David Byrne: “La musica contiene in sé la sua ricompensa”. Se possibile è quindi giusto dare loro una mano come fa Musicultura che è un luogo in cui si rispetta la musica». 

Quando ha iniziato lei, però, si avevano aspettative diverse. 
«Ma era proprio il mondo a essere diverso. Gli stessi discografici avevano potere e potenzialità diverse. Ti facevano un contratto per cinque album, così avevi il tempo di crescere, di sbagliare… Quando sei destinato a fare una cosa che resterà nel tempo, sul breve non piaci, perché a piacere è ciò che va di moda. Chi dura trenta o quarant’anni le mode le anticipa. Grazie a dischi più semplici che vendevano, la case discografiche avevano i soldi per investire in quelli come me». 

Ma è possibili immaginare a un ritorno del cantautorato come lo abbiamo conosciuto? 
«Dal punto di vista dei contenuti sì, da quello commerciale no. Oggi Spotify è un rubinetto in piazza aperto a tutti, ma se vuoi bere qualcosa di più raffinato devi cercartelo e magari ti compri il vinile. I cantautori, così come tutti quelli che fanno cose belle, lo faranno per pochi».

 Lei adesso di cosa scrive? 
«Nel mio ultimo disco, Alma, di anime. Lì c’è la mia migliore canzone di sempre, Forma 21, che parla del momento esatto della morte. Forma 21 è la figurazione di Tai Chi che faceva Lou Reed quando è morto. Da lì ho cercato di raccontare lo stupore di quando arriva a morte». 

Restando sulla scrittura, ha ultimato il suo quinto romanzo. Come si intitola? 
«Ancora non lo so, c’è tempo: l’uscita prevista è sotto Natale. È una saga familiare ambientata a Milano, che racconta l’Italia dagli Anni Trenta al Duemila, attraverso anche i grandi traumi del Paese: la guerra, piazza Fontana, il terrorismo…». 

Il programma che ha condotto su Rai1, “Una storia da cantare”, avrà una seconda stagione? 
«Non lo so perché non dipende da me, in Rai ci sono alchimie politiche sempre complicate. Il programma però è andato bene, anche nelle repliche estive è stato quello più visto. La piccola rivoluzione è stata portare in prima serata non il classico conduttore ma uno che racconta storie. Se vogliono, io sono a disposizione».

 Al Bentegodi di Verona, senza pubblico sugli spalti, una Partita del cuore rivoluzionata. Cosa vedremo? 
«Ci sarà un quadrangolare. I quattro capitani saranno Gianni Morandi, Salmo, Raoul Bova e Alessandra Amoroso. Lo scopo è sensibilizzare sulle difficoltà di chi lavora di musica, di chi sta dietro le quinte».

 Il mondo dei live musicali è e resterà un problema. 
«Sì, perché non c’è una grande interesse per questo mondo. Ci stiamo movendo ma lentamente. È dura. Dico che fin quando non riparte la musica non sarà ripartito niente».

 Attraverso Twitter, non ha lesinato critiche al governo. Qual è la colpa maggiore che gli imputa? 
«Una comunicazione sui numeri del Covid non chiara e la poca attenzione alla musica. Mi sono confrontato con colleghi e la pensiamo tutti allo stesso modo, ma c’è paura di esporsi. E da un lato li capisco. Io a 63 anni cos’ho da perdere? Un ingaggio in tv? Comunque non scomparirò e non farò quattro San Siro pieni». 

Roberto Pavanello, La Stampa

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