Aubrey “Po” Powell, l’artista dietro le copertine dei Pink Floyd: “Ci hanno sempre dato carta bianca”

Aubrey “Po” Powell, l’artista dietro le copertine dei Pink Floyd: “Ci hanno sempre dato carta bianca”

E’ stata una serata speciale quella del primo agosto all’Auditorium Parco della Musica, perché è andata in scena alla Cavea una delle opere più classiche ed amate del repertorio dei Pink Floyd, Atom Heart Mother, eseguita dai Pink Floyd Legend con coro e orchestra. Album celeberrimo anche per la copertina, con la mucca Lulubelle in primo piano, realizzata dallo studio Hipgnosis. “Quello che vedo nella mostra è il mio lavoro messo nell’ambiente di un museo, sono contento che venga visto come arte. Finalmente c’è qualcuno che mi prende sul serio…”. Chi parla è Aubrey “Po” Powell, una delle menti, assieme a Storm Thorgerson, della Hipgnosis, lo studio grafico che ha lavorato a lungo con i Pink Floyd, realizzando alcune delle più belle e importanti copertine di album della storia della musica. E la mostra di cui Powell parla è The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains, che è in giro per il mondo, attualmente e fino al 15 settembre a Madrid. “Che le copertine dei dischi siano una forma d’arte è materia di discussione da molto tempo. Come del resto è sempre stato in discussione il rapporto tra il rock e l’arte”, dice Powell, “Io credo fermamente che il lavoro fatto dalla Hipgnosis, quello che abbiamo fatto con i Pink Floyd, faccia parte dell’arte contemporanea, sebbene abbiamo usato un mezzo commerciale, la copertina di un disco. Dietro ogni lavoro che ho fatto con Hipgnosis e i Pink Floyd c’è un’idea surrealista, una natura creativa non connessa al commercio. Ci sono voluti più di quarant’anni per far si che l’arte e la musica prodotta dalla generazione del rock venisse presa sul serio. Il primo momento è stata la mostra di David Bowie che tre anni fa è stata prodotta dal V&A e ha messo un punto, creato un precedente importante, e il successo e l’interesse creato da quella mostra ha aperto la strada ad altre mostre. C’è una generazione che è cresciuta, che ora è nell’autunno della vita, e questa generazione vuole vedere l’arte che ha amato presa seriamente. E non è nostalgia del bel tempo che fu o della gioventù, è l’affermazione di una produzione artistica e di una cultura che vuole essere percepita in quanto tale”.

 

Come è nata la collaborazione con i Pink Floyd?
“Venivamo tutti da Cambridge e ci ritrovammo tutti a Londra, alla metà degli anni Sessanta. Io ero alla London School of Film Technique, Storm era alla Royal College of Art Film School, Syd Barrett alla Hornsey Art School… dividevamo un appartamento di South Kensington con Dave Mason ed eravamo al centro della rivoluzione psichedelica di quel momento. Fu Syd a suggerire il nome del nostro studio: noi pensavamo a una cosa del genere “Counsciousness Incorporated”, ma un giorno trovammo scritto su una porta “hipgnosis” e pensammo che fosse un bellissimo nome. L’aveva scritto Syd”.

Avete mai avuto incomprensioni o tensioni con loro?
“No, con nessuno di loro. Il bello di lavorare con i Pink Floyd è che sostanzialmente a me e a Storm davano carta bianca. Qualche volta ci facevano ascoltare della musica, alle volte ci davano i testi, molto più spesso niente, solo il concetto di base. Roger aveva un’intuizione su cosa doveva essere l’album, ce la spiegava in termini astratti e noi ci mettevamo al lavoro. Alle volte l’idea veniva da loro, come nel caso della copertina di Animals che venne da un suggerimento di Roger, quello di avere un grande maiale in volo sopra la Battersea Power Station. Per Wish you were here invece ci disse che il concetto era quello dell’assenza e tanto ci doveva bastare. Ci piacque l’idea di gente separata, di cartoline spedite da persone lontane e in solitudine. Sul soggetto dell’insincerità abbiamo immaginato due businessman che si stanno dando la mano per siglare un’accordo ma uno dei due prende fuoco, era l’insincerità dei discografici raccontati da Have a cigar. La foto del tuffatore che non ha schizzi né onde l’ho scattata dal vivo, non c’era photoshop, non ci sono trucchi. Lo stuntman sott’acqua ha trattenuto il respiro per due minuti…. Il tutto era chiuso in una busta di plastica nera che non aveva altro che un dettaglio di due mani meccaniche che si stringono. Dovevi aprire la busta per scoprire la copertina, con l’uomo in fiamme davanti, il tuffatore sul retro, la cartolina con il nuotatore nella sabbia del deserto…era parte integrante della sorpresa che avevi quando mettevi il disco sul piatto e iniziavi ad ascoltare una musica che non conoscevi”.

La “coppia” con Storm Thorgerson è stata fondamentale per il lavoro della Hipgnosis.
“Storm era mio fratello, era una persona straordinaria, avevamo discussioni come cani e gatti, ci odiavamo e ci amavamo, abbiamo fatto un fantastico lavoro insieme, eravamo l’uno l’opposto dell’altro, come Mick e Keith, Plant e Page, Noel e Liam Gallagher, e questo ha fatto sì che il nostro lavoro fosse così grande, perché alla fine di ogni discussione avevamo un risultato migliore. Eravamo una factory, come quella di Warhol, avevamo la capacità di pensare fuori dagli schemi. E avevamo la fiducia totale delle band, perché sapevano che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, sapevano che quello che avremmo fatto sarebbe stato bello e interessante”.

Avete reso le copertine un prodotto artistico autonomo.
“Si, spesso le immagini che realizzavamo non avevano alcun senso con la musica dei dischi, erano solo belle, erano arte, e le band apprezzavano esattamente questo. È stato così con gli Yes, con Peter Gabriel, con i Led Zeppelin e con tutti gli altri. L’esempio che amo di più è l’oggetto nero di “Presence” degli Zeppelin, è misterioso, enigmatico, peculiare, porta l’attenzione di chi guarda sul disco, e questo era fondamentale in un periodo in cui non c’era MTV, non c’era YouTube o i social network. La gente vedeva le copertine e sentiva le emozioni che un disco poteva trasmettere, capiva l’unicità di quello che stava per ascoltare. Era l’unica presentazione che una band aveva, quindi aveva un peso determinante, la copertina diceva qualcosa della band e dell’album. E gli album che avevi in casa dicevano qualcosa di te”.

Prima di voi l’arte delle copertine dei dischi sostanzialmente non esisteva.
“Quando abbiamo cominciato il nostro lavoro le copertine degli album avevano una foto della band e basta. La Blue Note aveva fatto delle cose interessanti, alcuni jazzisti avevano lavorato con grandi fotografi o con artisti come Warhol, ma le copertine erano fatte sostanzialmente di facce di cantanti o di gruppi Poi Peter Blake rivoluzionò tutto con la copertina di “Stg.Pepper” per i Beatles nel 1967, l’anno in cui la Hipgnosis aprì. Capimmo immediatamente che potevamo pensare in maniera “laterale”, che potevamo pensare “out of the box”. Non dovevamo fare copertine con le immagini della band, non dovevamo restare nei rigidi confini imposti dalle case discografiche e i loro uffici grafici. Prendi ad esempio “Atom Heart Mother”, una foto di una mucca in un campo, era inaccettabile per una casa discografica, non c’era nemmeno il nome della band sulla copertina, solo la foto di una mucca. Era arte surrealista, era Man Ray, era Magritte, era Dalì, non certo un oggetto promozionale nel senso classico del termine, era un estensione del lavoro creativo della band. Funzionò in una maniera straordinaria, chiunque vedeva quella copertina restava incuriosito, si chiedeva che tipo di musica poteva contenere un disco con una simile cover. Contribuì enormemente al successo dei Pink Floyd, ma anche alla definizione della loro arte”.

Cosa consiglierebbe oggi a un ragazzo che volesse iniziare a lavorare come grafico?
“Fai fotografie che ti piacciono, lavora lateralmente non pensare all’ovvio, tutti possono copiare o plagiare. Fai le cose per te stesso, non serve essere matti o esoterici, ma personali, devi avere un punto di vista. Ci sono cinque regole: devi essere nel momento giusto, devi essere nel posto giusto, devi avere un po’ di talento, devi avere un po’ di fortuna e l’ultima è che devi sfruttare ogni possibilità per portare la tua arte fuori dalla tua cameretta”.

Ernesto Assante, repubblica.it

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