«Più badili e meno chitarre». Ecco il tackle . La corsa spezzata dalle gambe a forbice. L’entrata dura del veterano. In una domenica di pioggia all’Arena di Verona, ci tornerà sino a venerdì e ancora dal 21 al 25 settembre, Zucchero è spietato: « Troppa gente crede di essere musicista, io gli darei solo una vanga». Ci siamo, i discografici fibrillano. L’attacco è frontale. Magari non ai suoi, «posso permettermi di sperimentare, come in “Black Cat”, è uno dei privilegi dell’età. Credo di essere coraggioso, in America ho suonato tre ore in posti dove ne sarebbe bastata una».
Lo schiaffo è per «le multinazionali della musica, che dovrebbero essere spazzate via. Bisognerebbe tornare a piccole etichette indipendenti, che sappiano scovare i veri talenti». Piove blues, tracima soul, la batterista Queen Cora Dunham è lussureggiante di ritmo e sguardo caldo, la chitarrista Kat Dyson ha l’espressione sofferta di chi ha imparato ad amare senza farsi illusioni. E Zucchero è lì, con la giubba ad alamari e il cilindro da “Via col vento”, a irridere «il circolo vizioso per cui, complici i talent show, è più importante comunicare che fare musica. Capisce il paradosso? Ci sono colleghi che magari riempiono gli stadi “comunicando” ovvietà e la musica diventa la penultima ruota del carro».
Ti guarda sornione: «Negli ultimi anni se ne sono andati molti dei grandi, ne rimangono pochi, ma i comunicatori abbondano». Che inferno. È tornato dall’America «spaventato perché la gente comune sta tutta dalla parte di Trump, vuole cambiare le cose. E francamente mi chiedo se ci riuscirà». Ma conosce troppo bene quella terra umida o desertica, le montagne e le grandi pianure, per non capire che «evidentemente la natura delle cose è lontana dalla politica».
Ha le gote rosse, rughe che rimbalzano sulla faccia contadina, «le origini sono sempre più importanti, frequento amici che non vedevo dalle elementari. Ci separano distanze abissali per quello che ho visto io e nemmeno immaginano loro. Ma questo è il mio mondo. La Brescello di Guareschi, i film di Bertolucci, la dolcezza e la semplicità che non ritrovo più. Il futuro non è quello di una volta…». Fa pausa. Ma si vede che quei badili, dopo aver strappato illusioni e presunzione ai più giovani, gli piacciono molto.
«Ci si arrende, come canto in una canzone di “Black Cat”, al fatto che è difficile ritrovare la purezza dell’amore. Diceva il poeta Josè Martì che un amore calcolato non può essere sincero. Vagli a dare torto». Fa il giro del mondo, Cartagine , poi andrà a Cesarea, in New Zeland, Australia, Sud America. Ma gli rimane nel cuore «quel capannone a Lafayette, Lousiana, fra Houston e New Orleans, dove dieci chitarristi suonavano all’unisono il zydeco», che è una miscela esplosiva di blues e cadenze francesi «mentre tre violinisti e tre all’organino gli ronzavano intorno. Un giorno forse li chiamerò e li farò suonare in una canzone. Da me vi aspettate la terra e il sudore, lacrime e promesse, non effetti speciali e salti pirotecnici che piacciono alla discografia».
Non gli piace più il rock «visto che troppi suoi epigoni invece di protestare contro il sistema e il potere si sono rammolliti. Allora preferisco i versi di tanti rapper, almeno provano ad andare controcorrente. Peccato che poi la musica suoni debole, un cliché. Che me ne farei di un rapper sul palco? Gli chiederei di parlare? Non se ne parla». A Los Angeles ha incontrato Mick Jagger, «per puro caso, tipo molto simpatico, gli ho ricordato che a Cuba ho suonato prima dei Rolling Stones». Vero. Per uno che girava per locali sino all’alba e si innamorava dei musicisti di strada, l’America fa di questi prodigi, sentirsi parte di una comunità di semidei è quasi scontato. Il futuro, ha appena detto, non è più quello di una volta: «Da bambino lo vedevo come un miraggio straordinario, non credo che un ragazzo di oggi possa concedersi altrettanto». Eppure il soul stantuffa, Queen Cora rotea le bacchette come spade e Zucchero è lì che sorride: al diavolo, quello peccaminoso del blues, le falsità della musica di plastica. E badili a volontà per chi la sostiene. Grande.
IL SECOLO XIX