Il chiodo, il deca, la disco. I “fighissimi” anni ’90 tornano con Max Pezzali

Il chiodo, il deca, la disco. I “fighissimi” anni ’90 tornano con Max Pezzali

Oltre le canzoni, a Max Pezzali piace scrivere libri. Un appuntamento letterario periodico con i suoi fan che si arricchisce ora di un nuovo episodio: a Per prendersi una vita (2009) e I cowboy non mollano mai (2013) si aggiunge Max 90.

La mia storia. I miti e le emozioni di un decennio fighissimo (Sperling & Kupfer, pagg. 242, euro 19,90). Agli ingredienti già conosciuti – l’autobiografia, la provincia, le Harley Davidson, il successo – ecco una serie di nuovi contenuti, cominciando da due bonus track, la prefazione di Lodo Guenzi (anche il leader de Lo Stato Sociale ha nostalgia dei tempi analogici) e soprattutto il ritorno, in forma di Post Scriptum, di Mauro Repetto, che con Pezzali fondò gli 883 prima di fuggire dall’altra parte del mondo, per stanchezza o per qualche ruggine mai risolta.

Questa nuova pubblicazione, divertente anche nelle illustrazioni di Roberto Recchioni che scandiscono i brevi capitoli, non si limita a ripercorrere le tappe di un musicista comunque inossidabile e sopravvissuto alle mode del momento, ma è un vero e proprio vademecum sull’ultimo decennio del Novecento, che a tratti può sembrare l’appendice di Un weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli, il primo tra i nostri scrittori a credere che cultura e intrattenimento, pop e impegno potessero camminare a braccetto.

Sfogliamo così le pagine di un dizionario generazionale e chi era giovane negli anni ’90 non può non rimpiangere l’ultima stagione del localismo e i primi passi, inevitabili e sciagurati, nella globalizzazione, cominciando dal deca, le 10.000 lire che bastavano a far serata mentre oggi con 5 euro prendi un caffè, il giornale e poco più. Eravamo in pochi ad avere il cellulare, ingombrante e costoso, ma negli ambienti alternativi la t-shirt nera era di ordinanza. Bar, sale gioco, discoteche erano luoghi in cui avvenivano i primi incontri di natura sentimental-sessuale e il giovane Max da Pavia, non ancora famoso, si era trovato più volte nel ruolo del due di picche, «che si manifestava quando partivi con aspettative elevatissime e arrivavi a un passo dall’obiettivo, ma alla fine tornavi a casa con le pive nel sacco, nonostante sembrava fosse la serata giusta, quella in cui doveva succedere di tutto».

Allora non c’erano i whatsapp e alle donne si scrivevano lettere d’amore in cui ci sforzava di risultare poetici, colti, retorici. I porno si vedevano al cinema o sulle riviste comprate di nascosto, non gratis in rete. Il sogno a due ruote si chiamava Zundapp 125, troppo cara e quindi «con un grado di realizzabilità pari a quello di un volo sul Concord». E mentre i genitori spingevano per il posto fisso, qualcuno ha cavalcato la propria inaffidabilità e incostanza, convinto di riuscire a vivere delle proprie passioni.

Le parti più interessanti e gustose del libro riguardano quegli oggetti e quei gesti ormai desueti e diventati perciò di culto: l’arbre magique messo in auto a togliere l’odore di fumo se doveva salirci una ragazza, la radiolina per ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto, i mitra ad acqua per giocare ai gavettoni – Pezzali sostiene non fosse da sfigati e francamente ho qualche dubbio – l’autoradio con decine di compilation pensate per ogni occasione che si esaltava a seconda della potenza di woofer e subwoofer, il Golf Cabrio (e non la Golf), una macchina da Barbie, sicuro strumento di seduzione, il video juke-box e il disco pub durati il tempo di un mattino, il profumo nauseabondo del balsamo tra i capelli, battere la stecca a quelli impegnati nel servizio di leva, il cinquantino, la discoteca di pomeriggio, la segreteria telefonica. Questi ed altri andrebbero inseriti nel museo della nostra memoria, accanto al poster di Kurt Cobain, ultima rockstar la cui morte ha segnato la fine di un genere musicale.

Le canzoni degli 883 prima e di Pezzali poi hanno raccontato il passaggio dalla giovinezza alla linea d’ombra, non come un trattato filosofico ma con la consapevolezza che prima o poi saremmo stati costretti, nostro malgrado, a diventare grandi. Capisco Max quando scrive «mio padre a quarant’anni era più o meno com’è adesso che di anni ne ha settantotto», mentre noi ci vestiamo ancora da ragazzi, a cominciare dal chiodo, «lo metto ancora con orgoglio, è il giubbotto da avere nella vita… a questa cosa non intendo rinunciare». Tra scampoli di filosofia – quella della regola dell’amico è rimasta una massima, la dura legge del gol è sempre lì e non cambierà mai – l’autore non può congelare il tempo e allora, anche lui, si chiede se davvero tutto andrà bene. La sua valutazione mi trova d’accordo: nonostante i problemi, l’Italia di fine secolo scorso stava iniziando una nuova era di rinascita mentre «oggi in parlamento c’è gente che a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 non sarebbe entrata nemmeno nel consiglio provinciale di Pavia».

Luca Beatrice, ilgiornale.it

Torna in alto