Clash, il quinto album dell’artista torinese, esce il 1 febbraio: “I talent in tv ti fanno credere che sia tutto facilmente realizzabile. Ma non è così. Sanremo? Non è ancora il posto per me, ma era doveroso che il rap venisse rappresentato”
Da un lato l’istintività del freestyle, dall’altro quella saggezza che deriva dalla maturità. Cuore e razionalità, che in Clash – il quinto album di Ensi (all’anagrafe Jari Ivan Vella) – si mescolano in un perfetto equilibrio. Registrato e mixato nello studio mobile di Red Bull, il disco (uscito il 1 febbraio) passa dalla dimensione rabbiosa dei tre “freestyle” a quella introspettiva degli ultimi due brani, Fratello e Complicato. In ogni caso, il rapper torinese non perde mai la sua integrità morale e musicale. E in una scena in cui tutti sono pronti a salire sul carro della trap, pur di andare in classifica, già questo – di per sè – è degno di nota. Ensi (per usare le sue stesse parole) «rimette in riga con il rap questa gioventù convinta che tutto ciò che non è trap è old-school». Per fortuna, invece, ci sono tantissime variazioni sul tema. E Clash è una di queste.
In un momento in cui tutti scelgono di fare trap hai mantenuto la tua integrità musicale.
«Ho fatto una scelta stilistica, ero nella posizione di poterla fare. Non è che se facevo un pezzo trap mi si apriva la possibilità di diventare il nuovo fenomeno mondiale. Ho 33 anni, ho la mia storia e non ho bisogno di ripresentarmi. Fare un’inversione era inutile. E poi, la ricerca della formula vincente a tutti i costi non fa per me. Imitare quello che funziona non mi ha mai convinto e non mi convincerà mai. In questo disco c’è un’esigenza artistica più forte, ovvero mantenere l’identità musicale e l’integrità».
In Clash freestyle dici: «Vedo sta scena di bambini, dissing coi telefonini». Quanto pesa la componente anagrafica del pubblico oggi?
«Pesa fino a un certo punto. Il rap è diventato adulto, pensare che sia una musica per bambini è riduttivo. Credo che là fuori ci siano trentenni o quarantenni che come me amano e ascoltano il rap. Pensare che questo pubblico non esista e che valga meno di un altro mi sembra sbagliato, questa è tutt’altro musica per bambini».
Scrivi «rimetto in riga con il rap questa gioventù convinta che tutto ciò che non è trap è old-school». In Italia sembra che sia tutto o bianco o nero, che non esistano le sfumature. Perché secondo te?
«Non ce l’ho con gli artisti trap, ce l’ho con il sistema. Il rap finalmente è stato sdoganato a ogni tessuto sociale e quindi è normale che anche ragazzi del tutto sconnessi all’ambiente hip hop facciano questa musica. Non sono certo io a decidere il più bravo o il più bello, non mi interessa. Se pensate che tutto quello che non è di tendenza sia vecchia scuola, state sbagliando e vi state perdendo un po’ di bella musica».
In Rapper (pezzo con Johnny Marsiglia e Agent Sasco, storico cantante della dancehall giamaicana che ha collaborato con Kendrick Lamar) hai sperimentato con sonorità dancehall.
«L’ambiente della musica giamaicana in Italia è da sempre molto forte, ci sono tanti artisti talentuosi che esportiamo all’estero. In America già negli Anni Novanta si mescolavano rap, dancehall, raggamuffin. Mi ricordo che ascoltavo KRS-One e Grand Puba. Anche oggi oltreoceano è così, penso a Drake che collabora con Popcaan. In Italia a questo livello non era mai stato fatto».
Canti «odio i rapper fasci, i rapper nazi». Oggi nel rap si è persa la connotazione politica e sociale degli inizi.
«Si è persa, è vero. Da un lato sono contento, perché in quegli anni se non facevi rap impegnato politicamente non eri da considerare. Invece il rap ti permette di parlare di tutto. Ma se sei un ragazzo con idee di destra e ascolti questo genere forse non hai capito granché. Purtroppo dato che ormai è diventato nazional popolare è arrivato ad attecchire anche su chi ha delle idee politiche diverse da quelle originariamente legate a questa musica. Comunque oggi nel rap non si parla di politica perché ai ragazzi non interessa minimamente, non sanno neanche il nome del premier».
La rima nasce da un episodio particolare?
«A un mio concerto qualche tempo fa un ragazzo mi ha chiesto di fargli un autografo su una scheda di Casapound. Gli ho detto di no e lui si è anche un po’ offeso. Se ascolti il rap non puoi avere quelle idee».
E i rapper nazi?
«Intendevo i nazi rapper, tipo i nazi vegan. Ci sono tanti rapper che vedono male tutta la nuova wave, percepiscono l’evoluzione del rap come il male assoluto. Per quel che mi riguarda il nuovo che avanza non è il male, però mi piace dire la mia e mettere i puntini sulle i».
Hai dedicato una canzone a tuo fratello minore?
«Sì, per lui è un momento molto difficile. Ho scritto il brano anche per colmare il senso di impotenza che avevo nei suoi confronti. È un modo per dire che c’è sempre speranza».
In Fratello e Complicato – gli ultimi due pezzi dell’album – emerge il tuo lato personale, introspettivo.
«Quando ho iniziato a scrivere l’album non avevo intenzione di raccontarmi e aprirmi tanto, perché l’avevo già fatto nei lavori precedenti. Volevo fare un disco che fotografasse il momento. Poi, però, la mia penna è andata in quella direzione».
Una tua strofa recita: «La tv dice devi fare i soldi o ciao ». Cosa pensi dei talent?
«La frase si riferisce alla società materialista in cui viviamo, che ti dice che devi indossare vestiti di marca e che solo i soldi fanno la felicità. I talent in tv passano il messaggio che i sogni si possono realizzare facilmente, e questo non mi piace. Non è vero che tutti devono essere famosi per essere qualcuno. Non tutti gli artisti diventeranno primi in classifica, non tutti quelli che suonano la chitarra formeranno una band di successo, non tutti quelli che sanno cantare riempiranno i palazzetti. È giusto avere un sogno e crederci, ma penso che la società strumentalizzi il fatto che un ragazzo ci creda. Non ostacolo di certo i sogni di un giovane che vuole cantare o fare il ballerino, ma la tv ti fa credere che sia tutto facilmente realizzabile. Come dico nel pezzo il vero dramma è chi ci crede».
Hai già pensato a come porterai live il disco?
«Sì, ma non ho ancora deciso. La classica formula mc e dj mi piace, però visto che musicalmente è un viaggio anche avere una band non mi dispiacerebbe».
Quest’anno a Sanremo ci sono molti rapper, che ne pensi?
«Credo che faccia più comodo a Sanremo avere il rap che il contrario. Dato che non è il Festival della canzone pop è giusto che ci sia. E poi se togli il rap, togli oltre il 50% dell’indotto della musica italiana. Era doveroso. Per me però non è ancora il posto adatto, forse perché ho visto più generazioni di Sanremo senza rap che quelle con il rap. Magari dopo venti edizioni con il rap allora dirò: che figo il nuovo pezzo rap di Sanremo».
Alice Castagneri, Lastampa.it