Sky, che resta forte, fa fatica a far tornare i conti mentre Premium di Mediaset accumula debiti. Ventre alza la testa la tv generalista data in declino
C’è un immaginario collettivo che, per mille motivi, ha deciso che la pay tv è sinonimo di successo, di tv del futuro, che gronda utili e che si imporrà nei modelli di consumo televisivo italiano.
Poi, invece, c’è la realtà dei fatti.
Che vede crescere i fatturati delle tv in chiaro, da Rai a Mediaset, passando per La7 e Discovery, e della radio.
Due mezzi antichi, dati per morti mille volte da esperti e analisti, e invece sani più che mai. Ci sono i numeri dell’indagine Mediobanca, presentati ieri su ItaliaOggi, e ci sono pure quelli del 2016 (il dossier Mediobanca si fermava al 2015) che consolidano il trend.
La tv a pagamento, che pareva dover destabilizzare l’universo televisivo italiano, è invece in crisi economica e finanziaria. Dal punto di vista editoriale tutto funziona, con contenuti ricchissimi, ascolti più che buoni, abbonati soddisfatti, tecnologie all’avanguardia per usufruire delle offerte. Il problema è industriale: i costi produttivi e quelli per i diritti tv, in grado di assicurare un palinsesto così ricco, variegato e di qualità, sono spropositati in un mercato italiano che ormai vede il numero di abbonati stabile e poco disposto a pagare di più.
Sky Italia, che nella tv a pagamento ha il suo business principale, è nata a fine luglio 2003: opera sulla Penisola, quindi, ormai da oltre 13 anni e non si può più definire una start up. Ha origine dalla fusione di due aziende, Telepiù e Stream, che negli anni Novanta lanciano la pay tv in Italia, perdendo un sacco di soldi.
Sky Italia, invece, non si può dire che perda soldi. Ma non ne guadagna. Il gioco del broadcaster di Rupert Murdoch, in questi 13 anni, è più o meno a somma zero: alcuni esercizi in perdita, alcuni in utile, ma la somma non è positiva. Il fatturato di Sky Italia si avvicinerà ai 3 miliardi di euro nel 2017, ma la società ha chiuso l’esercizio 2016 con perdite per 38,1 milioni di euro, ed era andata in rosso pure gli esercizi 2014 (-8,6 mln) e 2013 (-45,9 mln), con un utile di 24,2 mln nel 2015. Insomma, la tendenza preoccupa. Per questo Sky ha iniziato a differenziare il suo business, un po’ meno dipendente dai ricavi da abbonamenti residenziali (calati del 2,6% nell’esercizio 2016), un po’ più orientato anche alla raccolta pubblicitaria (su del 14,5% nell’esercizio 2016), alla tv in chiaro (Tv8, Cielo, SkyTg24), alla produzione e alla distribuzione cinematografica. Cambia pelle e sta attenta ai conti: in questo senso vanno lette anche le recenti decisioni circa la chiusura della sede romana in via Salaria, il trasferimento di 300 persone verso il quartier generale di Milano, e l’evidenziazione di circa 200 esuberi in categorie professionali considerate obsolete.
Chi ha provato a fare concorrenza a Sky Italia nella pay tv, sia Telecom Italia Media (quando controllava La7), sia Dahlia Tv, ha chiuso i battenti perché il mercato italiano non è abbastanza grosso.
Finora ha resistito solo Mediaset Premium, nata nel gennaio 2005 come una sorta di pay tv kamikaze da schiantare contro Sky per non farla crescere troppo e minacciare il core business del Biscione.
Premium, in questi 12 anni, ha probabilmente tenuto fede alla sua mission, ma ha perso centinaia di milioni di euro. E i conti si sono ancor più aggravati nel 2016 a seguito della vicenda Vivendi (si parla di un rosso attorno ai 200 milioni di euro per l’esercizio 2016).
Tuttavia, come di recente dichiarato dai vertici di Mediaset, il business della pay tv, e in particolare del calcio in pay, non è più al centro dei pensieri di Cologno Monzese.
Si è vissuto, in sostanza, oltre un decennio di impazzimento per la pay tv, prima di capire che quello è un business con un futuro dal fiato corto, soprattutto se i costi restano così alti.
Più certezze sembrano arrivare, invece, dalla tv in chiaro, dove i fatturati pubblicitari 2016 crescono (Mediaset +3%, Rai +8%, Sky +15% soprattutto grazie a Tv8, Discovery +15%, La7 +2%) e i costi produttivi e per i diritti sono maggiormente sotto controllo. Mercati, quello pubblicitario della tv in chiaro e della radio, dove gli operatori italiani possono ancora avere voce in capitolo. A differenza di altri due comparti in grande espansione: quello della pubblicità su Internet, dove però la maggior parte della torta (oltre 1,5 miliardi di euro all’anno) va a Google e Facebook, giganti ai quali è quasi impossibile fare concorrenza; o la pay tv in streaming, settore in cui gli italiani sono destinati a occupare un posticino alla periferia dell’impero, con Neflix e Amazon Prime Video a spartirsi invece il mondo.
di Claudio Plazzotta, ItaliaOggi