Suo marito glielo ripete prima di ogni provino: «Mi raccomando, togliti quell’espressione e fai una faccia simpatica, sorridi». In effetti — sarà per lo sguardo fiero o per la bellezza, così rigorosa — Maria Pia Calzone istintivamente incute una certa soggezione. Poi però inizia a parlare e svela all’istante un animo dolce, che nulla ha a che vedere con la durezza di certi suoi personaggi (vedi Donna Imma, il ruolo di Gomorra che per lei ha cambiato tutto, ndr.) e che anzi, a sorpresa, va a braccetto con una certa insicurezza. «Lo sono da sempre — spiega —. Forse c’entra col fatto che non ho un posto del cuore, un luogo veramente mio. Non sono di origini napoletane, però ho vissuto a Napoli e prima a Brescia. Sono sempre stata straniera nel posto dove stavo».
Quando si è trasferita a Napoli?
«Per la prima elementare. I napoletani — essendo Napoli un regno — hanno un senso di appartenenza fortissimo. E’ una città molto ego-riferita. Io tornavo a casa da scuola e mi arrabbiavo perché non capivo delle parole. Ma alla fine, questo animo vagabondo mi ha dato il privilegio di essere dentro un ambiente riuscendo sempre a vederlo da fuori».
Quando le è stato utile?
«Penso a Gomorra: all’inizio temevo fosse la mia debolezza, ma poi ho capito che è stata la mia chiave. Ho realizzato che quello che vedevo come un ostacolo mi ha permesso di raccontare un mondo che conoscevo, senza compiacimento».
Presto su Rai1 andrà in onda con «Non ti pago», trasposizione della commedia di De Filippo.
«Fa parte del progetto con cui la Rai vuole riproporre al pubblico Eduardo, attraverso lo sguardo contemporaneo di un regista come De Angelis. Il filo conduttore è Sergio Castellitto: mi sono divertita moltissimo».
E il senso di inadeguatezza? C’era?
«Certo, mi accompagna. Ma mi fa anche essere molto in ascolto di quello che mi succede attorno, oltre che di me stessa. È ciò che mi rende a disposizione del personaggio».
Quando ha capito che la recitazione era la sua strada?
«Ho sempre amato recitare: da bambina aprivo le ante dei vecchi armadi, quelle con il doppio specchio, e facevo dei grandi monologhi, osservandomi».
La prima persona che le ha detto che era brava?
«La mia insegnante delle elementari, nelle recite, mi affidava sempre il ruolo della Madonna. Più tardi ho frequentato un laboratorio teatrale in cui insegnava Lello Arena: quando gli chiesi se avevo delle chance, è stato il primo a darmi una risposta di cui mi sono fidata».
Ed è stato anche la prima persona a farla debuttare al cinema.
«Sì, tra grandi risate perché non sapevo nulla e lui non mi diceva nulla. Mi ripeteva solo: “Lo scoprirai da sola”».
Poi? Come ha proseguito?
«Sono andata avanti per ostinazione. Sono stata giovane nei primi anni Novanta: la situazione era molto diversa. C’era una divisione netta tra chi lavorava in tv e chi al cinema, con attori considerati di serie A e altri di serie B».
Lei in che serie era?
«Avevo avuto qualche occasione in tv: è stato difficile fare il salto di qualità. Poi non veniva favorito certo il talento. Io arrivavo sempre all’ultima fase di provini, e poi affidavano i miei ruoli — generalmente da cinque o sei pose — a una persona da accontentare. Per me quello era lavoro, non essendo ricca di famiglia».
Frustrante.
«Moltissimo. Oggi c’è più fluidità del talento. Peccato io sia nella fascia delle cinquantenni: le possibilità per un’attrice diminuiscono drasticamente nonostante viviamo in una società che invecchia. Eppure la popolazione femminile delle 50enni è dimenticata dalla narrazione televisiva. È inaccettabile non solo per noi attrici ma anche per tutti: al cinema si continua a escludere un’età come se bisognasse vergognarsene. Poi ci si domanda perché le donne siano insicure».
Ha accennato alle sue origini non benestanti. Le hanno pesato?
«A 15 anni, non potermi permettere il cappotto o lo stivale di moda mi ha spinta a cercare altrove la mia individualità: il mio specifico era la mia testa. Ho sviluppato una forte personalità per compensare. Ancora oggi mi sento un po’ in colpa se desidero una borsa che costa quanto lo stipendio di un operaio: so cosa vuol dire quella cifra per un’altra famiglia».
Nella sua carriera, c’è un prima e dopo «Gomorra»?
«Sì, è uno spartiacque, un momento cardine. Dopo che mi avevano presa, per un mesetto, stavo attenta anche a fare le scale per paura potesse succedermi qualcosa che avrebbe mandato a monte tutto. Gomorra mi ha dato notorietà internazionale, cambiando la stima del mio ambiente nei miei confronti. Magicamente, mi ha fatto accedere a ruoli che mi erano preclusi e aperto la strada della commedia, che nessuno mi faceva fare per via della mia faccia», ride.
Tra i suoi prossimi ruoli?
«Sto girando una serie per Palomar in cui interpreto una commissaria di polizia. E’ molto interessante perché, ragionando tra donne, abbiamo creato un personaggio lontano dagli stereotipi».
Lei è tra i fondatori dell’Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.
«E ho la delega alla parità di genere. Credo che non ci si possa solo lamentare ma serva fare delle cose che ci assomiglino, come donne, diventando produttrici di noi stesse. Perché il nostro punto di vista è reale, esiste».
Chiara Maffioletti, corriere.it