A me gli occhi, Gigi. Se ne va uno dei più grandi commedianti italiani. In un grigio autunno zeppo di Covid, Gigi Proietti dal Tufello è morto per le complicazioni dovute ad una crisi cardiaca nel giorno in cui avrebbe compiuto 80 anni. Scamiciato in bianco e sudato, con quegli occhi roteanti e furbeschi, corpo gommoso, rutilante, nodoso, ha fatto divertire l’Italia degli anni settanta/ottanta, consegnandoci personaggi, gag, imitazioni, barzellette memorabili. Già, perché Proietti, di padre e madre umbri giunti a Roma poco prima della guerra, lì Gigi è nato proprio davanti al Colosseo, è stato uno di quei rari attori che ha saputo coniugare il “basso” e l’“alto” della comicità italiana senza mai eccedere da un lato nel volgare, dall’altro nel trombonismo. Quando guardavi negli occhi, appunto, Gigi, cominciavi a ridere e non ti fermavi più. Giochi di parole e assonanze accompagnate da performance fisiche in continua fibrillazione, consegnano alla storia un artista poliedrico, controfigura e prolungamento di Ettore Petrolini, sosia paradossalmente comico di Carmelo Bene, Proietti aveva rodato lo schema dell’indurre al riso fin dagli albori della sua carriera, peraltro, come sempre, casuale: gli si faceva una richiesta e lui come davvero solo i più incredibili cabarettisti del creato, era in grado, con un paio di sguardi, con un paio di smorfie a riempire i silenzi, di farti sorridere anche se doveva ancora iniziare la gag. Che dire del personaggio di Pietro Ammicca, “affarologo appaltologo” che deve offrire due “affari alternativi”? Proietti innesta la mimica dozzinale su quella astratta per far decodificare allo spettatore la parola che sta per dire. Accoppiamento paradossale, surreale, travolgente. Poi parte la raffica. Accelera, decelera, accelera, decelera. Dio Proietti, che tempi comici. Prendete la gag dello chansonnier francese con cicca, quella intitolata “Nun me rompe er ca”. In fondo il nulla, giusto una frase parolaccia allusa, sussurrata, mai pronunciata per intero. Eppure lui ci costruisce uno sketch per 4, 5 minuti. Solo quella frase dentro alla vertigine della sua mimica. Semplicemente fuori categoria. L’inizio è una chitarra strimpellata durante la pausa in trattoria tra una lezione di giurisprudenza e l’altra a La Sapienza. Poi qualche barzelletta sempre per goliardia tra amici. Non è nemmeno iniziato il decennio dei sessanta, ma un attore e mimo di pregio come Giancarlo Cobelli, uno che proveniva dalla scuola di Strehler, lo nota e soprattutto gli fa notare il suo talento. Proietti rifiuta ogni avances. È solo un gioco. Ma all’università passa per caso Vittorio Gassman. L’allievo che in una puntata di Blitz imiterà il maestro mentre legge Dante (qualcosa di comicamente sublime), si accoda alla star. Impara, comprende, capisce, comincia a destreggiarsi sul palco con testi serissimi (Shakespeare, Gombrowicz, Moravia). Infine capitola su nuova insistenza di Cobelli. Ed è qui che finalmente comprende metodo e disciplina del palco, e qui si libera di ogni remora drammatica per diventare un teatrante comico tutto profuso verso una propria versione di teatro popolare. Due le tappe da segnarsi: la prima nel 1970 è la sostituzione di Domenico Modugno in Alleluja Brava gente di Garinei e Giovannini che gli dona lustro; la seconda è il 1976 al teatro Tenda di Roma quando il sodalizio con il drammaturgo Roberto Lerici arriva all’apice dello spettacolo da one man show, A me gli occhi please. Canta, srotola monologhi, sicilianizza l’Amleto, ridacchia smagliante. Proietti in scena è un tornado. Mastica e rielabora il teatro italiano di quegli anni che sta cambiando verso una forma più brillante e comica.
Davide Turrini, ilfattoquotidiano.it