Il “sovranismo” ora ha anche una declinazione calcistica. Il 10% dei ricavi televisivi (circa 350 milioni di euro nel prossimo triennio) sarà assegnato ai club di Serie A che faranno giocare di più i giovani cresciuti nei vivai (meglio se eleggibili per la Nazionale). Nella bozza di legge di bilancio per il 2019 che viaggia verso il Parlamento, dopo il via libera del Consiglio dei ministri, spunta infatti una misura che potrebbe modificare sensibilmente la gestione del calcio italiano, caratterizzandola in senso sempre più “autarchico”.
Nell’annus horribilis del football tricolore – con gli Azzurri fuori dai Mondiali e traversie giudiziarie che tengono tuttora in stallo i campionati di Serie B e C – il governo gialloverde cerca così di superare in una sola volta gli effetti della sentenza Bosman, con la perdurante invasione di atleti comunitari e stranieri, e l’alibi delle scarse risorse destinate ai vivai dai team della massima divisione (complessivamente tra i 110 e 130 milioni all’anno).
Ispiratore del provvedimento, che farà felice il commissario tecnico Roberto Mancini e il neopresidente della Figc Gabriele Gravina, è stato Giancarlo Giorgetti, plenipotenziario leghista che ha fortemente voluto la delega sullo sport. Tifosissimo del Varese (si narra di sue frequenti presenze anche durante i ritiri estivi della squadra lombarda) e del Southampton (tanto da fondare il fan club italiano della compagine britannica), Giorgetti conosce molto bene anche le difficoltà del calcio tricolore, tanto da aver dedicato la sua tesi di laurea agli sprechi connessi agli stadi di Italia ’90, e ha deciso di rilanciare lo sviluppo dei settori giovanili con un incentivo economico rilevante a favore di chi schiererà appunto giovani calciatori italiani ovvero formati in Italia (cosa che potrebbe rendere più semplice l’eventuale acquisizione della “nazionalità calcistica tricolore”). Cosa prevede la riforma della Melandri sui diritti tv?
La misura inserita nel progetto di legge di bilancio in realtà corregge in corsa le novità volute dall’ex ministro dello Sport del governo Gentiloni, Luca Lotti, che dovevano trovare applicazione proprio da questa stagione. I soldi ottenuti dalla cessione dei diritti tv da destinare ai club di Serie A – circa 1,2 miliardi al netto della mutualità interna per il triennio 2018/21 – andranno quindi attributi alla luce di un nuovo parametro: l’utilizzo effettivo di giovani calciatori allevati in Italia.
La norma “Lotti” stabilisce che il 50% degli introiti televisivi vada ripartito in parti uguali, una quota del 30% sulla base dei risultati sportivi conseguiti e il restante 20% sulla base del radicamento sociale. L’emendamento “Giorgetti” prevede che quest’ultimo 20% sia suddiviso in questo modo:
•il 6% sulla base del pubblico di riferimento di ciascuna squadra, tenendo in considerazione il numero di spettatori che hanno assistito dal vivo alle gare casalinghe disputate negli ultimi tre campionati;
•il 4% sulla base dell’audience televisiva certificata»;
•e il 10% «sulla base del minutaggio dei giovani calciatori».In particolare, si dovrà tenere conto «dei minuti giocati negli ultimi tre campionati da giocatori cresciuti nei settori giovanili italiani, di età compresa tra i 15 e i 21 anni e che siano stati tesserati per l’attuale società per almeno tre interi campionati di serie A».
Il radicamento sociale dunque verrà coniugato come «radicamento» territoriale della formazione dei nuovi talenti calcistici (secondo criteri che un successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dovrà poi specificare). A distanza di oltre vent’anni, il nuovo sovranismo calcistico prova a dribblare l’inefficace norma varata dal governo di Romano Prodi (decreto legge 485 convertito nella legge 586) nel 1996 che aveva cancellato il divieto di distribuire gli utili dei club – trasformandoli in società a scopo di lucro – a patto di impiegare il 10% dei profitti per il sostegno dei settori giovanili. Una prescrizione logica e condivisibile, se non fosse che di profitti in Serie A da allora se ne siano visti ben pochi, e tanto meno di investimenti nei vivai.
Marco Bellinnazzo, Il Sole 24 Ore