Il regista premio Oscar mette in scena la propria vita, tra sogno e realtà: BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdade è una sorta di 8½ alla messicana, ambizioso e onirico
A volte ritornano. E questa volta non si tratta dei racconti di Stephen King, ma di Alejandro G. Iñárritu. Dopo 21 grammi (2003) e Birdman (2017) il regista presenta in concorso alla 79.ma edizione della Mostra del cinema la sua ultima fatica. BARDO, Falsa crónica de unas cuantas verdade, ossia,” cronaca falsa di alcune verità” è senza dubbio, l’opera più complessa del cineasta giunto alla soglia dei 60 anni. Non a caso ci ha impiegato cinque anni per realizzarla. Tuttavia, non si tratta di un mero tirare le somme della propria esistenza (dei bilanci si occupano i ragionieri come diceva il grande attore Arnoldo Foà). Bardo è la riprova di quanto La vida es sueño, per citare il celebre dramma di Calderon della Barca. E soprattutto la memoria non è mai oggettiva, ma si diletta a modificare il passato per migliorare il presente e prevedere il futuro.
“Il cinema è il modo più diretto per entrare in competizione con Dio”. L’aforisma è di Federico Fellini e siamo certi che Inarritu lo condivida appieno. Anzi al regista italiano, uno dei pochi cineasti al mondo ad avere avuto il privilegio di essere diventati un aggettivo, fa capolino spesso e volentieri Bardo. Le citazioni fioccano, a partire dalla fuga del giornalista e documentarista durante il party organizzato in suo onore (scena speculare del tentativo di nascondersi di Marcello Mastroianni nel corso della conferenza stampa di 8½). Ma pure la rappresentazione barocca, bulimica virtuosistica di uno studio televisivo sembra la versione latino-americana di Ginger e Fred. Last but not Least, la soubrette callipigia Tania Kristel, sogno erotico che turbava l’infanzia del protagonista, con le sue forme generose e quelle uova al tegamino sfoggiate a guisa di copricapezzoli è un doppelganger delle Volpine, delle Saraghine, delle tabaccaie, immaginate dal Maestro riminese. Certo, si palesa anche Luis Buñuel e tutto il suo immaginario surrealista, da Il fascino discreto della borghesia a Il fantasma della libertà. E quelle di Iñárritu non sono sbiadite fotocopie di capolavori, ma omaggi, tributi alla possanza iconica della settima arte.
Viva Mexico Cabrones!, cantavano i Molotov in “Gimme the Power”. E il Paese natio di Iñárritu, con la sua cultura, la sua storia, le sue contraddizioni si intreccia con la vita di Silverio (uno strepitoso Daniel Giménez Cacho) famoso giornalista e documentarista messicano trasferitosi a Los Angeles. L’uomo dopo aver ricevuto un prestigioso premio torna in patria e il viaggio si trasfigura in una delirante, spassosa e dolente ricerca del tempo perduto. Il privato diventa pubblico e viceversa, mentre Amazon si compra lo Stato della Bassa California e il protagonista del film dialoga con Hernán Cortés, sopra una montagna di cadaveri di indios Aztechi. In una perpetua “mise en abym”, le storie celano altre storie, in quest’opera in cui i bambini tornano nell’utero perché il mondo fa schifo e i vagoni del metro si riempiono di acqua tra anfibi axolotl e passeggeri sgomenti. E non sapremo mai dove finisce la realtà e inizia il sogno.
Parimenti a un caliente burrito extralarge o a un piatto di “Nachos Locos”, Bardo è un film che può risultare indigesto a chi ama il minimalismo e detesta simboli, metafore, allegorie. Va però riconosciuto a Iñárritu, di mettere il proprio cuore a nudo, in queste quasi tre ore in cui il regista riflette sulla propria vita e sulla sua carriera. Forse il successo va assaggiato e poi sputato, per evitare di finire avvelenati, come suggerisce il padre del protagonista del film. E basta guardare quanti premi ha in bacheca Alejandro per capire quanto ci sia di autobiografico nella vicenda racconta dal film. Però, se immaginare la propria morte può risultare la forma più alta di autocommiserazione (White Noise docet) l’amore anche per un “ritardato emotivo”, come Silverio può essere la risposta. E magari lasciarsi andare e danzare con la propria moglie, con i propri figli. Chissenefrega se i duri non ballano. La fragilità può essere salvifica. A volte la forza risiede nella debolezza. Ed è d’uopo citare ancora una volta 8½ . Nello specifico il monologo finale personaggio del regista Guido Anselmi: “Questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere adesso”.