THE BOSS E STEFANKO, DUE AMICI PER LA PELLE E LE LORO FOTO FATTE IN CASA

THE BOSS E STEFANKO, DUE AMICI PER LA PELLE E LE LORO FOTO FATTE IN CASA

Per l’arrivo del ‘River Tour’, il 3 luglio a Milano e il 16 a Roma, nella galleria di Guido Harari ad Alba le immagini del fotografo Frank Stefanko. Scatti essenziali che rivelano la star oltre i primi trionfi di ‘Born to Run’. Che finirono sulle copertine di ‘Darkness on the Edge of Town’ e ‘The River’. E in libreria arriva un volume che racconta le canzoni di Bruce una per una

Bruce-SpringsteenBruce Springsteen e Frank Stefanko si conoscono da quarant’anni. Era il 1977 quando un angelo del bene chiamato Patti Smith, nel backstage di un suo concerto, disse al Boss, fresco fresco del trionfo di Born to Run: “Dovresti farti fotografare da questo tipo. Si chiama Frank Stefanko”. Era suo amico dal 1970 e, come Springsteen, un altro ruvido, sano, battagliero appassionato sognatore del New Jersey, che sbarcava il lunario lavorando in una fabbrica di carne in scatola. Il che non gli impediva affatto di essere, fin dal liceo, un eccellente fotografo. Così eccellente che, nella prima seduta di scatti, a dir poco felicemente sgangherata, seppe ripulire il Boss da ogni scoria di una celebrità agguantata, senza peraltro cercarla, quasi subito con la sua musica. Popolare anche perché a suo modo, un modo molto rock evidentemente, figlia della secolare tradizione americana di folksinger e songwriter che da Joe Hill ai Covered Wagons Musicians, Hank Williams e Woody Guthrie, ha sempre cantato la gente, le sue speranze, tragedie, battaglie. Quelle foto sono ora, altra faccia della medaglia delle inevitabili dichiarazioni d’amore approntate delle diecine di migliaia di italici springsteeniani, uno dei benvenuto che il paese rivolge al Boss, in arrivo il 3 luglio a Milano (San Siro), il 16 a Roma (Circo Massimo) col River Tour.
Quei ritratti così scabri e sinceri. Circa quaranta di quelle immagini scabre, asciutte fino all’osso, operaie e familiari, nella doppia accezione di conosciute e casalinghe, fermate da Stefanko fra 1978 e 1982 arrivano infatti dal 2 luglio al 4 settembre alla Wall of Sound Gallery. Il nome palesemente spectoriano che Guido Harari ha voluto per la galleria messa su nel 2011 insieme a Cristina Pelissero nella fenogliana Alba, per realizzare mostre, restaurare immagini, pubblicare fotolibri, manifesti e cataloghi legati a musica e spettacolo. Chi sia Harari, ogni appassionato di rock e pop del mondo lo sa bene: uno fra i più attenti, capaci e ammirati fotografi della musica popolare contemporanea, membro inoltre dal 1994 della prestigiosissima agenzia Contrasto, acuto scrittore di cose musicali fin dai tempi di Muzak e Gong, le due più importanti riviste italiane di sempre, e titolare di una sterminata bibliografia di saggi e fotolibri. Uno del quale si fa prima a dire chi non ha fotografato che il contrario, quasi tutti divenuti anche amici proprio per la capacità magica di Harari di cogliere il dentro delle persone insieme al fuori. Quasi più un regista che un “semplice” fotografo, qualità dei soli maestri. Giusto qualche nome: Dylan, Lou Reed, Zappa, Tom Waits, Bob Marley, Kate Bush, Lindsay Kemp, David Crosby, Ute Lemper, Paul McCartney, De André, ma anche Capossela, Baglioni, Pippo Delbono, Paolo Rossi, Sandro Chia e conviene fermarsi qui.
Il Boss sta per tornare e l’Italia gli fa festa. Intorno ai due attesissimi concerti di Milano, il 3 luglio a San Siro, e Roma, il 16 al Circo Massimo, sono infatti nate iniziative di notevole spessore, che vanno ben al di là del pur centrale amore dei fan per un simile artista. Ad esempio l’uscita (22 giugno) del volume “Bruce Springsteen. Tutte le canzoni” di Paolo Giovanazzi (Giunti) che, grazie a materiali di prima mano, analizza tutti i brani di Springsteen dal 1973 di “Greetings From Ashbury Park” ad oggi. Mentre la mostra “Jungleland” porta, dal 2 luglio al 4 settembre alla Wall of Sound Gallery, aperta ad Alba da un gran nome della fotografia musicale, Guido Harari, una selezione delle storiche fotografie che Frank Stefanko ha fatto al Boss in particolare fra il 1978 e il 1982. Entrambi semplici, solidi ragazzi del Jersey, Springsteen e Stefanko si conobbero nel 1977 grazie all’intuito folgorante di Patti Smith. Ne nacque una relazione umana ed artistica che, subito forte d’una complicità naturale, ha messo al mondo le copertine di album seminali, “Darkness on the Edge of Town” e “The River”, così come quella dell’autobiografia del Boss, “Born to Run”, in arrivo il 27 settembre. In questa, dal titolo “Bound”, e nelle altre immagini, una selezione esclusiva delle immagini scabre, essenziali, “operaie”, dalla mostra di Stefanko, che il 2 luglio (ore 15), presenta anche il suo libro “Giorni di sogni e di speranza” (Arcana), viaggio per immagini nell’utopia della cultura rock degli irripetibili Settanta newyorkesi, fra Chelsea Hotel, CBGB’s e Max’s Kansas City. (paolo russo)
Stefanko, storyteller per immagini. Autodidatta di talento, discepolo dei grandi eretici della fotografia americana – i pionieri Edward Steichen e Alfred Stiegliz, amico di Duchamp e di Dada; Diane Arbus, che diede volti e fattezze alle anomalie, ai piccoli “mostri” della quotidianità a stelle strisce – Stefanko esordisce nella fotografia giusto con Patti Smith e poi Springsteen. Realizzando in seguito portfolio, numerose, fortunate mostre, copertine e libri sui suoi due grandi amici. Mentre fuori dal rock, si è dedicato negli anni anche alla foto paesaggistica, in cerca delle nuove, e al tempo stesso ultime, frontiere di una natura che ancora laggiù riesce ad essere inviolata. Al momento Stefanko sta ordinando la sua cospicua raccolta di foto attraverso le quali ha documentato l’utopia rock degli irripetibili ’70 newyorkesi, in una galleria di riti, miti e visioni che ebbero in CBGB’s e Max’s Kansas City i suoi ideali teatri. Dalla profonda, prodiga relazione col Boss, il fotografo ha tirato fuori le immagini per dischi capitali, come Darkness on the Edge of Town eGreatest Hits, Tracks e The Essential Bruce Springsteen) e sua sarà anche la copertina di Born to Run, attesissima autobiografi The River (ma anche di raccolte: Live 75/85, a di Springsteen in uscita mondiale il prossimo 27 settembre. “Ho iniziato a fare foto con Bruce – racconta – nel ’78 per Darkness on the Edge of Town. Quel che non capii allora è che la nostra amicizia e la nostra collaborazione sarebbero durate più di trent’anni. E’ mereviglioso quando nella vita ti capita di lavorare con un artista del quale sei anche un fan, e che quel rapporto di lavoro e quell’amicizia riescano poi a durare per decenni”.
“Arrivai con la mia Corvette e improvvisammo in casa sua”. In quelle foto dai colori smorzati, quasi volesse azzerarli assieme ad ogni cura di composizione e inquadratura, scattate nella sua modesta casa di Haddonfield, New Jersey, i cui muri non nascondono le crepe, né Stefanko ci prova, il fotografo va dritto al cuore del Boss, ne condivide l’estrazione e l’asciuttezza, la forza onesta di bianco povero, gli toglie ogni possibile superficie. E lo si vede infatti come stupito di ritrovarsi tanto nudo davanti ad un’ancora quasi sconosciuto. Racconta Springsteen: “Stavo finendo Darkness on the Edge of Town, così dopo l’invito di Patti chiamai Frank. Un giorno di inverno arrivai con la mia Vette anni Sessanta (sta per Corvette, convertibile mito dell’America moderna, celebrata anche dalla celebre canzone di Prince, ndr) a casa sua. Le prime foto furono fatte in casa. Per l’occasione s’era fatto prestare una macchina fotografica, per tenere su una luce dovemmo chiamare il ragazzino della porta accanto. La foto di copertina di Darkness fu scattata nella camera da letto di Frank. Gli esterni furono improvvisati nel suo giardinetto o per le piccole vie del paese. Frank aveva un suo modo di eliminare qualunque resto di celebrità che tu avessi accumulato: coglieva il “te” che era in “te”. Sembrava che ti fotografasse secondo schemi rigidi e autoimposti, ma dentro sapeva creare un mondo che sentivo profondamente legato ai personaggi cantati in Darkness. La mancanza di grandiosità nelle foto, la loro immediatezza, la loro durezza, erano ciò che volevo a quell’epoca per la mia musica. Frank fotografava la tua vita interiore, lasciandone bene in mostra i difetti esterni. Foto pure e poetiche, con persino un po’ di umorismo in quella loro laconicità. Come in Born to Run, Frank metteva a fuoco gli stessi conflitti in cui mi dibattevo: chi sono io? Dove vado ora? Mi ha mostrato la gente di cui scrivevo nelle mie canzoni. Ha rivelato il lato di me che era ancora parte di quella umanità. Grazie!”.
Tutte le canzoni in un libro nuovo di zecca. Accanto alla mostra, nel benvenuto al Boss, è d’obbligo ricordare un libro che da pochi giorni è arrivato con merito ad arricchirne la già robusta bibliografia capeggiata finora dalla bio autorizzata di Peter Ames Carlin. Lo ha scritto Paolo Giovanazzi, stimato free lance di cose musicali e autore con Franco Zanetti di volumi su Stones e Vasco, lo pubblica Giunti nella collana Bizarre diretta da Riccardo Bertoncelli ed è, con le sue 384 pagine (euro 22) una meticolosa ricostruzione di tutte, ma proprio tutte, le canzoni di Springsteen dal 1973, l’anno di Greetings from Ashbury Park il suo disco d’esordio, nel quale gli sono già accanto alcuni di quelli che diverranno i ragazzi della E Street Band, Clarence Clemmons, David Sancious e Garry Tallent. Un lavoro encomiabile quello di Giovannazzi, che al dettaglio della ricerca col quale ha ricostruito origine, successo o sfortuna delle centinaia di brani del songbook springsteeniano, ha saputo unire l’approfondimento delle interviste con Jon Landau, l’eterno produttore del Boss, e i membri della E Street Band, fino alla godibilità di tanti aneddoti poco o per nulla noti che riguardano Bruce e personaggi difficilmente a lui collegabili, dagli Abba e Donna Summer a Barry White e gli Animals.

Paolo Russo, La Repubblica

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