Dopo quasi due anni passati a calarsi nei panni di Batman, Robert Pattinson è riemerso dal più difficile set cinematografico della sua carriera con nuove idee e nuove ansie sul genere di star che ora vuole essere
Robert Pattinson è straordinariamente bello. Occhi grandi, agitati. Lineamenti facciali decisi, disposti come avrebbe potuto fare uno scultore italiano del Cinquecento. A differenza di alcuni attori, è più alto di quello che si pensa. («Molti fan di Batman dicono: è piccolo, è piccolo! Non sono piccolo per un cazzo!» ribatte. «Sono, come dire, grande e grosso. Per quasi la metà del tempo cerco di dimagrire»). Ha quella capacità di sembrare convincentemente diverso, in misura significativa, in molte cose diverse. Non si tratta solo dei capelli e del peso. È il modo in cui riesce ad abbassare o alzare un volume interno per regolare occhi e bocca in una gamma di espressioni, dal pezzo di merda americano all’aristocratico francese. Questo gli permette di funzionare efficacemente come protagonista di un film sul famoso uomo pipistrello e di rubare la scena per 12 minuti. «È un camaleonte», commenta Matt Reeves, regista di The Batman. «Recentemente, Rob mi diceva che non interpreta mai un personaggio esattamente con la stessa voce. La voce è uno dei modi con cui entra nella parte».
Oggi, a Londra, il suo accento naturale è chiaro, le parole prudenti. Ma la risata è spensierata e non può fare a meno di rompere il ghiaccio dicendo precisamente come si sente: «Ho un fottutissimo jet-lag!». Non è abbastanza vestito: «Fa freddo! Cazzo!». E sente la sua età (35 anni): «Non posso più fare niente!». L’effetto è qualcosa del genere: mercante d’arte inglese dopo una fiera di un fine settimana a Hong Kong. Dà l’impressione che forse sei giorni fa era in forma smagliante.
Stiamo passeggiando in Holland Park, alla base di Notting Hill. Meno di 18 ore fa, il piano prevedeva che visitassimo lo Zoo di Londra, ma lui d’un tratto ci ha ripensato. «Ieri sera stavo parlando con la mia ragazza» — la modella e attrice Suki Waterhouse — «e lei mi ha detto: “Sai, alla gente non piacciono più di tanto gli zoo…”. Avevo pensato a una cosa metaforica. Ma poi mi sono ritrovato a pensare che era molto sbagliato, un orso triste che cammina in cerchio». Si era autoconvinto a lasciar perdere.
«Non posso farne a meno», spiega. «Lo faccio per ogni singolo elemento, ogni decisione, della vita. Qual è lo scenario peggiore per questa decisione?».
La sua carriera è stata finora definita da una combinazione di talento, desiderio, fortuna, relativa fama, e scelte coraggiose. La fama è arrivata rapidamente, con Twilight, la saga adolescenziale sui vampiri che ha incassato miliardi di dollari e ha avviato Pattinson su un genere di percorso molto particolare. Le scelte — film minori con cineasti singolari — sono venute nell’ambito della sua evasione magistralmente pianificata da una prigione decennale, quella di quella specifica carriera. «Faccio costantemente una valutazione dei rischi, una cosa che fa impazzire tutti, cercando di prevedere ogni singolo elemento che potrebbe verificarsi. E poi, alla fine, dico semplicemente: “Ah, vaffanculo! Farò il guardiano del faro che si scopa una sirena e basta! Penso che sia la mossa giusta!”».
Negli ultimi anni, la sua fama si era allontanata così nettamente dai blockbuster che Reeves, che aveva pensato a Pattinson mentre scriveva The Batman, non era sicuro che l’attore fosse interessato a ritornare dal suo viaggio nel cinema d’essai. Ma un po’ di visibilità presso il grande pubblico, per mezzo di The Batman, è stata una scelta tanto deliberata quanto il precedente allontanamento. Entrare nella caverna del pipistrello, incassare un po’ di soldi, poi ritracciare una nuova rotta in film più rischiosi. Era un piano.
Le cose sono partite in modo abbastanza favorevole quando sono iniziate le riprese, alla fine del 2019. «Poi mi sono rotto il polso proprio all’inizio, facendo un’acrobazia, ancor prima del COVID. Quindi tutta la prima parte è consistita nel cercare di continuare a fare ginnastica, sembravo un pinguino. Ricordo che allora sembrava la cosa peggiore che potesse capitare». Presto, naturalmente, sono sorti ostacoli molto più grandi, provocati da una pandemia globale senza precedenti, che ha causato interruzioni della produzione, tra cui quella determinata dalla sua “imbarazzantissima” positività nel settembre 2020, proprio quando tutti avrebbero dovuto rimettersi al lavoro dopo la prima, interminabile pausa. I ritardi hanno finito per allungare le riprese a 18 mesi — più o meno il tempo totale sul set di tutti gli altri film recenti di Robert Pattinson messi insieme.
E tuttavia, quando l’enorme produzione è ripartita a pieno ritmo, nel bel mezzo della furia pandemica, lui si è sentito grato — e a volte persino in colpa — di avere una distrazione che assorbiva tutta la sua attenzione. «Avevo sempre quest’ancora di Batman. Invece di pensare di essere un relitto in balia delle notizie, mi sentivo coinvolto senza esserne paralizzato. Tutti quelli che conosco, se avevano avuto uno slancio nella carriera o nella vita, e poi si erano fermati, hanno dovuto fare i conti con se stessi. Mentre io ero sempre così incredibilmente preso, a fare qualcosa che mi metteva anche una pressione enorme, di gran lunga la cosa più difficile che abbia mai fatto… In fin dei conti interpretavo ancora Batman, anche se il mondo avrebbe potuto finire. Ma nella vaga speranza che non finisse…». Più tardi me ne parla in altri termini: «Anche se il mondo finisce in cenere, io devo far uscire questo cazzo di film!».
Il set, alle porte di Londra, si è rivelato una «bolla dentro a una bolla», racconta l’attore. «La natura delle riprese era in un certo senso isolata, girando sempre di notte, sempre molto al buio. Mi sentivo tanto solo. E poi c’era il fatto di indossare sempre il costume. Non è permesso uscire dallo studio con il costume addosso, per cui quasi non sapevo che cosa stesse succedendo fuori». Gli hanno costruito una piccola tenda di fianco al set dove poteva andare a rilassarsi. Il più delle volte passava il tempo a fare cose strane con il costume da pipistrello. «Me ne stavo nella tenda a fare musica elettronica ambient in costume, guardando attraverso il passamontagna. C’è qualcosa nella sua fattura per cui devi un po’ chinarti in avanti per riuscire a vedere e rende difficilissimo leggere libri». L’aveva detto più volte, e non avevo idea di cosa intendesse. Di che passamontagna parlava?
«La maschera. La maschera da pipistrello!». Ore, giorni, settimane, mesi, al buio, con il costume e la maschera. «Io continuavo a chiamarla maschera. Ma ho imparato che, no, no, è un passamontagna».
Anche se le riprese di The Batman sono finite ad aprile, Pattinson sembra essere appena riemerso mentalmente dalla caverna. Ride in modo folle quando ricorda le ore solitarie passate al buio: «Voglio dire, dopo mi sentivo davvero sfinito, morto. Ho appena guardato una mia fotografia di aprile ed ero verde».
A un certo punto, mentre entriamo insieme in un ristorante un po’ affollato, i suoi occhi puntano su un privé destinato ad accogliere un gruppo discreto di avventori. Gli dicono che è riservato per un altro ospite. “Vuoi proprio tornare nella caverna”, dico, e lui fa una risata da stress post-traumatico.
«Ho guardato una prima versione del film da solo», mi racconta nella non caverna, mentre pranziamo insieme. «La prima sequenza è così stridente rispetto a qualsiasi altro film di Batman, ha una sorta di ritmo completamente diverso. Era quello che Matt diceva fin dalla prima riunione che abbiamo fatto: “Voglio fare un noir poliziesco anni ’70, come La conversazione. E ho un po’ supposto che intendesse il mood board o qualcosa del genere, l’atmosfera. Ma fin dalla prima ripresa, ho capito, “Oh, questo è veramente un poliziesco”. E mi sento un idiota, perché non sapevo nemmeno che Batman fosse ‘il più grande detective del mondo’; non lo avevo mai sentito definire così in vita mia, ma è molto azzeccato. Proprio perché ci sono molte situazioni in cui sta tra i piedipiatti. Normalmente, quando vedi Batman, arriva e tira botte. Ma ha dei dialoghi e ci sono scene cariche di emozione, che non penso ci siano state in nessun altro film».
Ricordo a Pattinson che l’ultima volta che è stato su GQ, stava appena iniziando la lavorazione di The Batman, in cerca di quella che ha definito «la crepa» in un personaggio che è stato interpretato in ogni possibile modo da decenni. Gli chiedo se l’abbia trovata.
«Ho sicuramente trovato un piccolo filone interessante. Non è per niente un playboy, per cui è un po’ un tipo strano nei panni di Bruce e un tipo strano nei panni di Batman, e ho continuato a pensare che in lui ci sia una tendenza più nichilista. Perché, normalmente, in tutti gli altri film, Bruce se ne va, si allena, e ritorna a Gotham credendo in sé, pensando “ho intenzione di cambiare le cose in questo posto”. Resta un po’ implicito che ha avuto una sorta di crollo nervoso. Ma quello che fa dopo, non è che funzioni. Passati due anni, da quando Bruce ha iniziato a essere Batman il crimine è peggiorato. La gente di Gotham pensa che sia soltanto un altro sintomo dello schifo generale. C’è questa scena in cui lui pesta tutti su un binario del treno, e mi piace da morire che nel copione ci sia un pezzo in cui il tizio che sta salvando urla disperato: o viene aggredito dai componenti di una banda, o arriva un mostro che fa a botte con tutti. Non ha idea che Batman è venuto per salvarlo. Sembra proprio un lupo mannaro».
Pattinson si fa una sonora risata. «E ho continuato a cercare di giocare su questo, ho continuato a cercare di pensare, e sicuramente lo esprimerò malissimo, ma c’è questa cosa nel trattare il trauma.… Tutte le altre storie raccontano che la morte dei genitori è il motivo per cui Bruce diventa Batman, ma io cercavo di scomporla in quella che pensavo essere una cosa vera, invece di cercare di razionalizzarla. Ha creato questa costruzione complessa per anni e anni, che è culminata nel personaggio di Batman. Ma non è una cosa sana quella che ha fatto». È come una crisi di nervi prolungata. “Quasi come una tossicodipendenza”, dice. C’è un momento in cui Alfred chiede a Bruce che cosa penserebbe la sua famiglia del fatto di macchiare l’eredità familiare con il suo nuovo secondo lavoro. “E Bruce risponde: ‘È questa la mia eredità familiare. Se non faccio questo, allora non c’è altro per me.’ Lo interpreto sempre non come, ‘Non c’è altro,’ come, ‘Non ho uno scopo.’ Ma come: ‘Ho chiuso con questa storia.’ E penso che questo lo renda molto più triste. Che sia un po’ un film triste. È la storia di lui che cerca un elemento di speranza, dentro di lui, e non soltanto nella città. Normalmente, Bruce non mette mai in discussione la sua capacità; mette in discussione la capacità di cambiare della città. Ma voglio dire, è un po’ una cosa da pazzi: l’unico modo in cui posso vivere è travestendomi da pipistrello.
“DC è un tipo di fumetto emo”, continua ridendo. “Ha un aspetto nichilistico. Anche il disegno è molto ma molto diverso. Quindi si spera che ci siano molte persone tristi nel mondo.”
Fuori, fa freddo, è buio e il clima è nichilista a causa del covid (in altre parole, tutto vagamente DC), e il tempo ricorda a Pattinson il fatto che di recente ha dovuto far aggiustare la caldaia. “Il tipo è venuto l’altro giorno”, racconta, “e ha iniziato a parlare casualmente del fatto che è un grande fan di DC. E io sono lì seduto, voltato dall’altra parte, e la mia ragazza continua la conversazione con lui. E io la guardo del tipo: Chiudi quella cazzo di bocca!” Lui scoppia a ridere. “Perché mi fa questo? Mi stava divertendo molto. Stava solo parlando con un fan ossessivo.”
Gli chiedo se abbia qualche ansia riguardo a come verrà accolta questa versione con molti livelli diversi. Dai superfan. Da quelli che sanno bene cos’è una cagoule.
“Dipende. Se alla gente piace il film, è fantastico. Tutto.” Ma se no, suggerisco. “Non si sa mai bene finché non succede.”
Mentre camminiamo per Holland Park nel primo pomeriggio — il cielo sembra premere sulle nostre teste — gli occhi di Pattinson scrutano i dintorni in modo riflessivo, in cerca di possibili minacce. È incomprensibilmente famoso da quando aveva 22 anni, e negli ultimi 13 anni dietro ogni angolo poteva essere in agguato un fan o una macchina fotografica o un fan con una macchina fotografica. Il parco, in questa giornata invernale, sembra innocuo per i miei occhi non allenati, ma Pattinson è più scafato.
Ci sono dei tavolini davanti al caffè del parco che sembrano un bel posticino per sedersi a parlare, ma ci sono delle vecchie signore che chiacchierano lì accanto, e un sentiero che passa abbastanza vicino perché lo possano vedere. Mi fa: «Hmm, che ne dici se…». Ci guida in una direzione diversa, verso un mucchio di materiali da costruzione abbandonati, con una panchina di fronte a una staccionata. Dice in tono fintamente grave: «Troviamo il posto più noioso, nascosto in un angolo».
Gli chiedo se è così che vive il mondo: una costante ricerca di posti nascosti in un angolo.
«Oh, al cento per cento. Se vedo un bar vuoto, senza nessuna atmosfera, faccio: Ooooh».
Le mascherine sono state una manna dal cielo, mi confida. «È strano che ci siano tutte queste proteste contro le mascherine, perché io penso, voglio portare una mascherina per il resto della vita. Penso di aver guadagnato qualche anno di vita per assenza di stress. È ideale quando anche tutti gli altri ne portano una, così non mi distinguo tra la folla. È incredibile».
Da quando ha finito The Batman, Pattinson ha compiuto la sua prima mossa autorevole dietro la macchina da presa, amabilmente nascosta, avendo firmato un contratto di produzione in Warner Bros. Dice di essere un «terribile sceneggiatore» ma «dare forma a delle cose lo trovo molto ma molto gratificante». Innanzitutto, ci sono alcuni progetti a cui lavora da un pezzo, abbastnza a lungo da non avere più il diritto di esserne protagonista, e invece «vuole trovare uno sconosciuto». Gli piace HBO Max, con cui lavora nell’ambito del contratto con Warner Bros., perché «non hanno paura», spiega. «Ho l’impressione che siano ancora nuovissimi e cerchino ancora di definire la loro identità. E c’è spazio». Il lavoro di sviluppo è iniziato mentre stava ancora girando The Batman: «Avevo la mia botta di energia al mattino. Andavo a fare ginnastica, e avevo circa un quarto d’ora prima di infilarmi il costume. E così passavo letteralmente sulla tazza sette minuti al mattino in cui buttavo giù delle email-flusso di coscienza per gli autori».
Descrive il brivido di promuovere programmi come questi che, come recitare, richiedono un piccolo viaggio personale all’inferno: «Mi sembra di riuscire ad avere delle idee solo quando c’è un’enorme quantità di adrenalina. È quasi come il mio processo per fare qualsiasi cosa in questo momento. Devo veramente ma veramente sentire di aver toccato il fondo. Quando fino al momento in cui devo recitare mi sento: Wow, non potrei stare più di merda». Ride con la risata della tenda del pipistrello. «Devi sentire il dolore. E poi d’improvviso è come che se Dio ti facesse un piccolo regalo: è un’idea a cui non hai mai pensato prima. Lavoraci».
Pattinson è un vorace consumatore delle opere degli altri. Legge in continuazione, guarda di tutto, cesella il suo gusto, il suo tono, fino alle punte acuminate che usa per collaborare efficacemente con i registi per dare vita a personaggi bizzarramente nuovi. In Il re del 2019, ha infilato un delfino stravagante nel bel mezzo di uno dei film meno ironici di tutti i tempi. «Avevo cercato di farlo seriamente, ma poi ho parlato con qualcuno di Dior, e ho iniziato a imitarli e a interpretarlo in questo modo più brillante», racconta. Ossia, trasponendo in Shakespeare una figura della moda francese. «Sulle prime ho iniziato a farlo per scherzo, ma poi mi sono ripreso e riguardato, e ho pensato che funzionava veramente».
Pattinson ha spiazzato di nuovo tutti con un ruolo inaspettato nel film del 2020 Le strade del male, in cui interpreta un predicatore del Sud, materialista e losco, che seduce le giovani parrocchiane e poi le manipola sfruttando i loro incontri sessuali. «Ma ho pensato che dovesse essere una commedia. Ricordo di aver letto lo script ed era così estremo, con personaggi così mostruosi, pensavo che dovesse esserlo».
È il suo modo di articolare il desiderio di vedere qualcosa che non ha mai visto prima facendo qualcosa che non ha mai visto prima. È il suo modo di essere quasi, per parafrasare Gandhi o Batman o qualcuno, il cambiamento nel cinema e nel divismo cinematografico che vuole vedere nel mondo. Ecco che cosa può fare la mia versione di un divo del cinema — interessa a qualcuno? Finora, dopo Batman, non proprio. «È ironico che dopo i due film che pensavo fossero quelli più con il successo assicurato che potessi fare, ecco che cambia l’intero scenario del settore dice. «Pensavo veramente che dopo Batman, sarei stato molto più…» Lascia cadere la frase con autentico sgomento. Si può sentire quanto si accalori per il desiderio di trovare un piano percorribile.
«Penso di aver perfino detto che era l’ultima volta che rilasciavo un’intervista a GQ», dice. «Prima di Tenet, i miei agenti mi dicevano, Sì, non sei nell’elenco per fare qualcosa. E assolutamente per combinazione, mi capitano questi due film grandissimi. E io chiedo: Okay, adesso sono nell’elenco? E loro, Sì, adesso sei nell’elenco ma non ci sono film». E con questo intende il genere di film che molti produttori e cinefili lamentano che non esista più in abbondanza. Un film con una star cinematografica ma per adulti. Con una dimensione tra The Lighthouse (budget di 11 milioni di dollari) e Tenet (200 milioni). «Ed è stranissimo: la cruna dell’ago, in cui cercavo di infilarmi prima, adesso diventa ancora più stretta», confida. «In passato pensavo di avere un piano relativamente a lungo termine, quello che ho fatto dopo il primo Twilight, di lavorare con vari registi diversi. Ma cercare di fare un piano adesso quando devi tenere conto di una sorta di dubbio esistenziale, e anche di essere un po’ come in competizione con degli adolescenti per la stessa parte… Beh, ci sono lupi dappertutto».
A fronte di tutte queste preoccupazioni per la carriera personale, l’attore si interroga anche ad alta voce sui problemi che ha il settore in genere a porsi al centro della cultura. «Anche quando il cinema prova a dire: Oh, facciamo qualcosa che colga lo zeitgeist, non è possibile se non tutti guardano allo stesso tempo. In passato i film generavano lo zeitgeist. E adesso trovo che, rispetto alla musica o alla moda, i film non riescano a tenere il passo con la cultura».
C’è un’eccezione però. Un barlume di qualcosa. E ha a che fare con il modo in cui alcuni cineasti, dice, sembrano identificare le sottoculture e curare più che semplici esperienze cinematografiche per coloro che sono sintonizzati sulla stessa frequenza. Descrive la scena a una proiezione di Diamanti grezzi dei fratelli Safdie, «dove c’erano forse 30 persone tra il pubblico che portavano cappelli Elara». Elara Pictures è la casa di produzione dei Safdie ma, tramite persone famose per la moda come Timothée Chalamet (un fan) ed Emily Ratajkowski (che è sposata con uno dei produttori), adesso sono anche diventati involontariamente una sorta di marchio di moda. Ci sono certi cineasti, sostiene Pattinson, che riescono a trasformare anche i film minori in qualcosa di molto più grande —qualcosa che sfiora, o addirittura definisce, lo zeitgeist. O probabilmente per essere più precisi: uno zeitgeist. Lo ha constatato con i fan anche alle proiezioni di The Lighthouse:«Erano tutti vestiti uguali, da pescatori». Dice che il regista Robert Eggers ha capito «in che modo puoi fare un po’ questa contaminazione con la moda e con la musica». Pattinson lo ha visto pure l’anno scorso a una proiezione di The French Dispatch. «Ho pensato che fosse una proiezione a tema. Ma tutte quelle persone erano solo fan di Wes Anderson. Si vestono semplicemente come lui».
In questa serie di esempi si trova forse la migliore spiegazione di quello che Robert Pattinson ha cercato di fare nel decennio scorso con le sue scelte professionali. Non limitarsi a lavorare con registi che fanno dei bei film ma lavorare con registi che generano un’energia così specifica che la gente vuole guardare i loro film e fare parte della sottocultura che solo loro sono in grado di coltivare. Registi che inducono le persone a vestire letteralmente come loro. «Se offri un film che offre un po’ tutta una cultura», osserva Pattinson. «Credo che alle persone piaccia davvero molto, e che provochi una reazione».
Con ogni ciclo di promozione di un film diventa sempre più chiaro che Pattinson è uno di quei tipi creativi autenticamente strambi, infinitamente energici, ingannevolmente caotici che sono impegnati in 10.000 cose mentre proiettano un finto senso di passività. Ecco l’attore, personalmente non più di tanto appassionato di sport, che ha una visione idealizzata del fanatismo calcistico dei suoi amici: «C’è qualcosa di bellissimo nell’avere qualcosa tutte le sante domeniche, del tipo, “Questo è quello che faccio”. Invece, quando qualcuno mi chiede “Quali sono i tuoi hobby?”, io penso: “Un cazzo di nervosismo. Preoccuparmi per il futuro”».
Racconta quest’ultima parte con una specie di accento comico. E poi ride. Il sentimento — l’ansia, l’incertezza su quello che il mondo ha in serbo per lui e per chiunque — sembra quasi troppo reale, come gli occhi tristi che brillano dietro il passamontagna da pipistrello. Mi ricorda ciò che Matt Reeves ha detto riguardo all’attore: che non ha mai interpretato un ruolo con la sua voce, che la voce è il suo modo per calarsi nei panni di persone diverse. Pattinson mi racconta che a volte si inventa semplicemente qualcosa per un’intervista, tanto per avere qualcosa da dire — e che a volte questo gli si ritorce contro (per esempio, commenti fatti anni fa riguardo a non lavarsi i capelli che lo hanno seguito fino a oggi). Diventa tutto un po’ sfuggente quando qualcuno ti racconta che a volte mente deliberatamente. Ma ho la sensazione che vada ad aggiungersi a varie altre storie che Pattinson condivide con me. Ci sono alcune cose che sono sincere, altre che sono costruite, e in mezzo una serie di ruoli che Pattinson interpreta oltre a quello di star del cinema e celebrità. Tra questi:
Venditore di porno (in precedenza). Rubava le riviste da un’edicola locale e le vendeva ai compagni di classe con un sostanzioso guadagno. Per questo fu espulso dalla sua prima scuola privata. Lo spirito imprenditoriale era organico, irreprimibile.
Finto spacciatore (in precedenza). «Non ci pensavo da anni, ma alle superiori la mia prima ragazza che si potesse chiamare tale aveva qualche anno più di me, e io volevo sempre frequentare i fighi dell’ultimo anno. E alcuni di noi decisero che avrei fatto finta di importare droga. Ma non sapevo neanche che aspetto avesse, la droga. Così mi venne l’idea di prendere dei floppy disk, di aprirli, versarci dentro una roba polverosa, e poi spruzzarci sopra un qualche detergente in modo che avesse un odore chimico, e sigillare tutto dentro. Acquistai qualcosa come 40 floppy disk, e poi li mostravo ai ragazzi che avevano forse 15 o 16 anni, e dicevo: “Sì, importo droga dentro ai floppy disc”». Lo racconta come una vera canaglia. «Tutti mi credevano. E così mi feci questa fama: questo qui è pazzo. È uno spacciatore! Tipo: Vuoi provare? Segatura con sopra dell’Ajax?».
Pirata rap (in precedenza). Era l’unico che conoscesse che si procurava gli album di Noreaga dall’estero. Lui e il suo amico prendevano i testi di Noreaga, trasponevano le loro voci in un programma musicale che aveva, e poi mandavano i “loro” rap al DJ inglese esperto di hip-hop Tim Westwood per cercare di farsi prendere nel suo show. «Mia mamma entrava in camera, e noi recitavamo testualmente i testi di altri, pensando che nessuno lo avrebbe mai scoperto».
Impostore dello skateboard (in precedenza). «Non ero veramente capace di andare sullo skateboard, ma ci provavo in tutti i modi, e mi esercitavo da solo, e poi letteralmente ogni volta che era ora di fare qualcosa, ero terrorizzato di farmi male, per cui me ne stavo solo lì seduto, trascinandomi in giro lo skateboard. Lo facevo rotolare avanti e indietro, ci sbattevo sopra delle cose, e praticavo delle piccole incisioni per far sembrare che l’avevo usato. Ma non ci sono mai salito sopra».
Designer di sedie (in corso). Aveva uno studio a Londra. Ma adesso fa solo piccole sedie di creta, dei modellini, li fotografa e li manda a un designer che conosce per farsi aiutare a realizzarle. La prima, «un divano folle», è in arrivo. È consumato dalle sedie. Ci pensa incessantemente. Quando è venuto il momento di disegnare il logo per la sua casa di produzione, ha continuato a mandare alla gente immagini di sedie.
Fotografo (in corso). E non soltanto dei modellini delle sue sedie. Recentemente era in un negozio, in cerca di una nuova macchina fotografica, e ha setacciato internet per scoprire che genere usa il fotografo Daniel Arnold. «Ho finito per rimanere lì in piedi a guardare un mucchio di sue fotografie», racconta. «Alla fine ho pensato: la macchina fotografica non c’entra niente, giusto? Come per qualsiasi altra cosa, puoi allenarti a vedere le situazioni in modo diverso — iniziare a vedere la surrealtà ovunque intorno a te».
Trafficante di snack a base di pasta (in corso, per ora). I fedeli lettori di GQ ricorderanno forse che, due anni fa, Pattinson cercò di dimostrare la sua idea per uno snack a base di pasta in un’intervista su Zoom, con risultati devastanti. Internet considerò il suo tentativo una trovata pubblicitaria, o quanto meno una deliberata dimostrazione di inettitudine. «Ma stavo veramente cercando di fare quella pasta», confida. «Ero letteralmente in trattative con aziende produttrici di surgelati, e speravo che quell’articolo potesse essere la prova di fattibilità. Il mio manager mi disse: “È proprio quello che vuoi? Vuoi la tua faccia su uno snack a base di pasta? Sai che devi andare da Walmart e venderlo veramente, per un guadagno potenzialmente scarsissimo”». Ride come se fosse l’idea di qualcun altro. «C’era una parte di me che pensava: esisterà un modo per cui questa cosa funziona?».
Tutto questo per dire: sembra che Pattinson sia da molto tempo bravo a fare almeno due cose contemporaneamente. Una persona unica e originale fino al midollo. Ma anche qualcuno molto bravo a fingere di essere qualcun altro.
Quando iniziò a partecipare alle audizioni, ogni volta che si presentava da inglese a un provino per un ruolo americano, gli addetti al casting si mostravano preoccupati. Lo mettevano sempre in discussione: “Siamo preoccupati per l’accento…’ ” ricorda. «Così, mi presentavo sempre come una persona diversa, un americano. Dicevo, “Salve, sono del Michigan”’ Ma poi, quando stavo facendo un’audizione per Transformers 2, subito dopo che era uscito Twilight— in altre parole, proprio il momento in cui Pattinson divenne un attore di fama internazionale — mi presentai come un tizio di Denver. E chiamarono la mia agente e le chiesero: “Che cavolo gli succede? Perché quell’improvvisazione? Un’improvvisazione veramente noiosa?».
Così iniziò a fare audizioni come Rob, nel bene e nel male. «Se non fossi stato veramente fortunato e fossi invece stato costretto a fare audizioni per tutti questi anni, non avrei una carriera. Sono proprio negato»., dice. Ha vividi ricordi del fatto che gli altri attori della sua età gli passavano il pranzo. «Eddie Redmayne e Andrew Garfield, cazzo se erano bravi alle audizioni, è incredibile. Li vedevi, e poi, se eri fuori ad aspettare, sentivi letteralmente i direttori del casting dentro che dicevano “Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!”. E tu pensavi “Porca puttana, chi c’è dentro?”. E veniva fuori Eddie che mi faceva: “Ehi, bello”. Avevo fatto qualcosa pensando che fosse una commedia, e all’improvviso sentivo quei singhiozzi. Mi chiedevo “Chi è riuscito a tirare fuori un singhiozzo da questa roba?!”E poi usciva quel cavolo di Eddie, merda».
Poi, di colpo, i giorni a dormire sul divano della sua agente a Los Angeles sono finiti. «Mi ha appena detto che ha ancora la mia valigia piena di biancheria sporca di quei tempi. In garage, fossilizzata».
Dopo Twilight, Pattinson ha lavorato con David Cronenberg, Werner Herzog, James Gray, Claire Denis. Ma nessuna accoppiata è sembrata entusiasmante come quella con Josh e Benny Safdie, con cui ha girato Good Time, del 2017: «Sono molto anarchici in un certo senso. Ma la situazione non è fuori controllo. Sono tra gli unici registi con cui ho lavorato che danno il meglio di sé nel caos ma hanno anche sempre il perfetto controllo dell’automobile».
I fratelli Safdie sembrano apprezzare questa sorta di disagio. I loro film sono animati dall’alta pressione delle decisioni sbagliate e dello scenario peggiore. E anche se la valutazione dei rischi gli suggerirebbe di evitare i ragazzi del quartiere a cui piace giocare vicino ai fili dell’alta tensione caduti, Pattinson è naturalmente elettrizzato dalla vicinanza: «Sono molto divertenti, spiritosi, coraggiosi. È l’elemento principale verso cui mi piace gravitare. Adesso fa paura quando fai uscire un film. Anche se nessuno lo vede, puoi comunque essere cancellato».
L’aria all’altitudine rara della celebrità di Pattinson può disorientare. «Può fare una cazzo di paura», dice. «La gente pensa che tu abbia un esercito che in un certo modo ti protegge, ma in realtà non è così. Sei da solo. Devi avere una quantità pazzesca di… credo che sia una sorta di forza mentale. Ovviamente, è una vita incredibile. Ma come qualsiasi altra cosa, se non puoi spegnerla… Anche le persone che ti sono più vicine danno per scontato che la tua vita sia probabilmente più simile a come è raccontata su una rivista. Anche i miei parenti. Ma d’altra parte, è proprio questo il punto: catturare l’immaginazione delle persone».
Andiamo parecchio in giro nel pomeriggio, da una zona di inattività apparentemente sicura all’altra. I suoi occhi sembrano veramente leggere il mondo come uno scanner termico. Da una panchina scalcagnata a una toilette vuota, e a un sentiero deserto in un parco a caso. Eppure, c’è un tizio che ci aspetta con una macchina fotografica. Con la mascherina alzata, Pattinson rimane impassibile. Passiamo davanti a dei bambini che giocano a calcio e gli chiedo se abbia mai avuto delusioni giovanili di grandezza calcistica.
«Al contrario. Provo ancora lo stesso terrore quando passo davanti a dei bambinetti, e mi arriva il pallone tra i piedi. Ho questo terrore di ripassarlo, e ritorno direttamente a quando avevo 10 anni, con la paura di calciare nella direzione sbagliata. Con la gente che dice: “Wow! Che idiota!” Prima o poi, probabilmente avrò un figlio. Per cui ho iniziato ad allenarmi in modo da essere abbastanza… in modo da poter giocare a calcio con un bimbo di tre anni».
Sente di invecchiare a ogni minuto che passa. «Trentacinque anni è decisamente l’età in cui le cose sono cambiate. Ho fatto durare l’adolescenza fino intorno ai 34», racconta mentre saltiamo su un taxi nero e iniziamo ad attraversare Notting Hill. «Ricordo che, qualche anno fa, parlavo con un amico in una qualche via carina da queste parti. Anni fa, ho pensato che fosse molto pretenzioso, e adesso sembra così bello. Mi sono detto, chissà che cosa è cambiato nella zona?…».
Crescendo, stando più vicino, inizia a vedere la sua famiglia in modo nuovo, la “delineazione tra i tipi di personalità” nei suoi genitori, suo padre (introverso, cinico, ansioso) a un’estremità della gamma e sua madre (estroversa, ridanciana, emozionalmente accessibile) all’altra, e il suo stare in mezzo, o, in realtà, come chiarisce, «ondeggiare dall’uno all’altra. Le cose di mio padre che mi facevano diventare matto — essere sempre contro, fare sempre l’avvocato del diavolo — sto andando in quella direzione».
Tornato a casa, più vicino alla famiglia, Pattinson sembra intento a stabilizzarsi in una nuova fase della vita e della carriera. Benché abbia preso quelle che potrebbero essere caratterizzate come infinite decisioni giuste, queste non sembrano aver delineato una strada evidente per il futuro. Che è un fatto della vita e della carriera che ancora saldamente Robert Pattinson nella sua micro-generazione. Esiste in quella fascia d’età di persone estremamente specifica (ossia, i nati nella metà degli anni ’80) che crescendo è stata testimone della Vecchia Maniera — l’ha vista funzionare dallo scalino più basso, dalla gavetta — prima di vedere il settore che ha scelto sgretolarsi nell’ultimo decennio, mentre in qualche modo loro hanno messo insieme un mucchio di vecchie macerie e nuova crescita per raggiungere i vertici di…che cosa esattamente? Molte persone della sua età, in molte vesti professionali diverse, avranno incontrato quell’alzata di spalle esistenziale, come nell’emoji, e avranno avuto il vomito. Pattinson è giusto vecchio abbastanza per aver veramente visto da vicino la cosa che voleva — ha fatto un piano — solo per trovarsi, quando è toccato a lui, di fronte al fatto ora evidente che assolutamente nessuno ha idea di che cosa succederà in futuro. È emozionante. È spaventoso. È quello che conosciamo purtroppo così bene dei suoi assillanti sentimenti professionali: “Ho veramente pensato che dopo Batman, sarei stato molto più…”
Non molto tempo fa, stava facendo una chiacchierata con il suo manager riguardo alla sua paralisi e indecisione su cosa fare in futuro su tutti i fronti, compreso il prossimo film. «Ho detto: “non voglio commettere un errore su cosa fare dopo.” E poi il mio manager mi ha risposto: “Lo capisco, ma più aspetti… non avrai un film in uscita fino al 2024. E per allora, a nessuno importerà un cazzo di cosa stai facendo”. È una cosa stranissima che fino a tre anni fa, avevamo tutti un po’ lo stesso genere di percorso professionale. Se tutto andava bene, in un certo senso poteva esistere. E adesso invece: quale sarà mai la direzione in cui andare?
“Devi solo pensare: Beh, il mio piano è che forse accadrà un miracolo e tutto andrà bene. Che è quello che credo che tutti pensino da due anni. Semplicemente: “Uhhh, suppongo che il piano sia sperare e basta?”».
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