Rocco Fasano è a Parigi. È lì che fugge «quasi clandestinamente» ogni volta che dal set di Skam 5 ha un paio di giorni liberi. Ventotto anni, attore, nella sua vita può tracciare un prima e un dopo. Il prima è quando ancora non era Niccolò Fares, il personaggio che interpreta, protagonista di Skam Italia, remake dell’originale norvegese, che racconta la vita di alcuni liceali romani. Più di una serie, un romanzo di generazione, oggetto di ossessione e ispirazione. Un personaggio che potrebbe ormai andargli stretto ma che, assicura, non è così: «Lo sento vicino, soprattutto per la sensibilità», dice, «anche io sono molto sensibile e ho fatto leva su questo per portare in scena gli aspetti più delicati, come il suo disturbo borderline. È uno scambio continuo, tu cresci e cresce anche il personaggio».
L’avviso, questa conversazione avrà un solo scopo: ottenere più spoilerpossibili sulla prossima stagione.
«Sì, certo, così poi vado in galera. Il set è la mia famiglia, non li tradirei mai. Dovremmo finire di girare prima di Natale, poi mi riposerò. Quando lavoro sono un soldatino: disciplina assoluta, orari da rispettare, si dorme quando si può. Quest’anno, però, per le feste non tornerò in Basilicata, resterò a Roma, con pochi amici, a godermi il nuovo appartamento».
È quella oggi la sua casa?
«Difficile da stabilire. Sono nato e cresciuto a Potenza, oggi vivo al cinquanta per cento tra Roma e Parigi. Tutte queste città, tenute insieme, si compensano bene. Resto, però, orgogliosamente meridionale. Il Natale dev’essere rumoroso e con tante persone. Sono cresciuto così: tutti a casa dei nonni, davanti al presepe. In famiglia, da piccolo, ho ricevuto coccole smisurate. Sono il primo nipote, ho vissuto con una pioggia di affetto che arrivava da tutte le direzioni. È qualcosa che ti porti dietro».
Sarà facile, quindi, fare parte della nuova campagna per le Feste di Zalando,#JoyIsOurs, ossia celebrare i momenti che ci rendono davvero felici. Vero?
«La mia vita è frenetica, ma sono questi i momenti che danno senso al tutto. Gli affetti sono quel bagaglio che ti porti dietro ovunque tu vada, sono la spina dorsale, sai che sono lì a sorreggerti. Comunicare le emozioni, coltivare gli affetti, è il mio “lato positivo”, se così lo si può definire, della pandemia».
Anche in questo caso c’è un prima e un dopo?
«Prima del lockdown trovavo difficile mantenere tutti i rapporti, avere tempo, ricordarmi di inviare quel messaggio. Non ci prestavo attenzione. Ora la priorità è tenermi strette le persone che davvero contano. Per loro spendo ogni giorno un pensiero in più: il caffè la domenica, il messaggio, o ancora meglio la telefonata. A farmi paura non è la solitudine di una casa, ma il non investire abbastanza nei rapporti a cui tieni davvero».
Amélie Poulain, la protagonista del film Il favoloso mondo di Amélie, ci ha insegnato il gusto pronunciato per le piccole gioie della vita, come rompere la crosticina di una crème brûlée. Quali sono le sue?
«Sono infinite. I momenti che mi godo di più sono le piccole gioie quotidiane. Come bere un caffè in un bar mai frequentato prima, visitare un nuovo museo o visitarlo per l’ennesima volta come fosse la prima».
Se parliamo di felicità, da che parte sta?
«Crescendo, ho capito molto bene che la felicità non è qualcosa che dura o da conquistare. Se si associa il concetto di felicità a una meta da raggiungere, piuttosto che al percorso, si rischia di non trovarla mai. Cerco di essere felice durante il tragitto».
Momento marzulliano: preferisce provare gioia o farla provare agli altri?
«Sono uno a cui piace tanto fare le sorprese, grandi o piccole che siano, ma sono anche molto goffo nel mantenerle tali fino alla fine. Così, spesso finisce che non è più una sorpresa, ma viene comunque apprezzato il gesto».
A cosa non rinuncerebbe del suo 2021?
«Ai piccoli momenti di felicità, appunto. Suonare un brano al piano, per esempio. In qualsiasi condizione psicologica io mi trovi, se suono al piano sto bene. Poi stare con le persone che amo. Anche fare il mio lavoro mi rende felice, ma quello non dipende solo da me, è più difficile da tenere sotto controllo».
Anche dopo il successo di Skam?
«Solo oggi sto cominciando a prendere le misure. Ho avuto la fortuna di fare un percorso graduale. Sono felice che Skam sia arrivato in un’età abbastanza matura, avevo 25 anni quando è iniziato tutto. Se fosse successo a diciotto, non so se avrei avuto i mezzi per gestire la cosa in maniera intelligente, come penso di avere fatto finora».
A diciotto anni si è diplomato al Conservatorio per poi iscriversi all’università, facoltà di Medicina. A che punto è?
«Lo studio è una cosa che sto mettendo da parte, non è ancora successo in maniera ufficiale, ma è incompatibile con la mia vita attuale. Ho scelto Medicina con l’obiettivo di avvicinarmi al mondo psichiatrico. Forse, in un futuro prossimo potrei spostarmi verso psicologia. Vedremo. Ho sempre voluto fare l’attore, fin da quando ho ricordi. Alle elementari, la maestra andava da mia madre e le diceva: “Guardi che suo figlio ha talento, lo faccia recitare”. Crescendo, ho incontrato gli ostacoli di una famiglia pragmatica, per la quale il mestiere dell’attore era un po’ come fare l’astronauta. Ma non biasimo i miei genitori, li ho sempre capiti, e soprattutto li ho sempre amati».
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