Formidabili quei mesi. Il Concorde decollava per la prima volta. Il tribunale condannava Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, vietandone le proiezioni e bruciandone le copie. Radio Popolare iniziava le trasmissioni. Usciva il primo numero di Repubblica. I brigatisti Renato Curcio e Nadia Mantovani venivano catturati a Milano dopo uno scontro a fuoco. Cadeva il quarto governo Moro. Scoppiava lo scandalo Lockheed, inquisiti i ministri Gui e Tanassi e l’ex premier Rumor.
Gustavo Thoeni vinceva l’argento dello slalom speciale nella sua ultima Olimpiade. E sul primo – allora si diceva così – la sera della Befana uscì ancora in bianco e nero il volto di un attore indiano sconosciuto, dal volto magnetico e gli occhi penetranti. Gennaio-febbraio 1976. Ultimo prima dell’era della tv a colori. Ma lui, Kabir Bedi, non ne aveva bisogno. Turbante. Capelli lunghi. Trucco pesante. Era la tigre della Malesia. Quaranta e rotti anni dopo, lo è ancora. Kabir chi… rispondono all’hotel che lo ospita. Scusi, ma lei non ha mai visto Sandokan? Ah, Sandokan, glielo chiamo subito.
È passato molto tempo, ma la ricordano sempre così.
«È un onore. Molti film hanno avuto successo, ma essere riconosciuto ancora dopo quasi mezzo secolo… Questo è un miracolo».
Ha fatto innamorare tre generazioni. Nonne. Madri. Figlie.
«Secondo miracolo. Non è stato merito mio».
E di chi, allora.
«Fortuna, solo fortuna. Internet e le nuove tecnologie hanno mostrato Sandokan anche a chi allora non c’era».
Come convive con l’ombra della Tigre.
«Ne sono felice e orgoglioso. Rimane sempre con me. E sono grato all’universo per aver ricevuto in dono questo ruolo».
Come si diventa Sandokan.
«Per quanto mi riguarda, mi hanno reclutato a Bollywood».
E lì come ci è arrivato.
«Da ragazzo ho fatto teatro. Era un hobby. E ho continuato per passione quando ho cominciato a lavorare».
Di che cosa si occupava.
«Facevo il pubblicitario».
E intanto l’attore.
«Esatto. Un giorno avvenne che una commedia ebbe un tale successo che molti produttori mi inseguirono per scritturarmi a Bollywood».
E lì come è andata.
«Ho girato vari film. Uno di questi è diventato talmente popolare che un giorno si presentarono a Bombay il regista Sergio Sollima, il produttore Elio Scardamaglia e lo scenografo Nino Novarese. Cercavano Sandokan».
L’hanno trovato subito, allora.
«Il costumista ha scommesso su di me».
E gli altri?
«Erano meno convinti. Hanno girato dieci città in Asia poi, tornati a Roma, mi hanno chiamato per i provini».
Che cosa le hanno fatto fare.
«Sono andato a cavallo. Ho nuotato. Abbiamo simulato scene di azione. Dramma. Amore».
Ahi (sorride). Risultato?
«Mi hanno detto: Tu sei Sandokan. Ma nessuno poteva immaginare quello che poi è accaduto».
Lo racconti.
«Alla fine delle riprese sono tornato in India e non ho più sentito nessuno. La mia agente ha lasciato l’incarico e mi ha piantato in asso. Sollima sparito. Internet non esisteva, telefonare era difficile. Temevo fosse andata malissimo».
Invece…
«Dopo tre settimane mi chiama un amico dall’Italia. È un successone. Devi venire mi ha detto».
E lei ha preso l’aereo.
«A Fiumicino ho trovato una folla in delirio. Impazzita. Mai più pensavo che fossero lì per me. Giornalisti. Macchine fotografiche. Urla. Braccia che salutavano. Ma chi salutavano, mi dicevo. Mi sono perfino girato indietro, convinto di trovare qualche volto noto».
E chi c’era alle sue spalle?
«Nessuno. In quel momento ho capito che erano lì per me. O meglio, per la Tigre della Malesia».
Di che cosa ha paura Sandokan?
«È un uomo. Ha grande coraggio ma teme di fallire. Si è preso la responsabilità di regalare al popolo l’indipendenza dagli inglesi. Non facile».
E Kabir Bedi.
«Ho il terrore di perdere la capacità di creare. Recitare. Vivere una vita vibrante, positiva».
Diffida della vecchiaia, insomma.
«Più che altro delle sue conseguenze. Le malattie. L’incapacità di saper affrontare i giorni. Grazie a Dio sto bene ma sono sicuro che se dovesse accadere qualcosa di brutto, troverò la forza di sopravvivere».
Sveli un segreto. Come si fa a non innamorarsi della perla di Labuan.
«Ma Sandokan aveva perso la testa per lei».
Solo lui o anche Kabir Bedi?
«Carol André è una donna molto bella e interessante, ma non abbiamo un rapporto così intimo. Io ho altre relazioni».
Vi siete rivisti dopo lo sceneggiato?
«Varie volte. L’ultima, due anni fa al festival di Roma. Lei era di casa, avendo lavorato spesso a Cinecittà. Si celebravano i 40 anni del film ed eravamo di nuovo tutti insieme. Suggestivo».
Come l’ha trovata?
«Affascinante come sempre. Ma ho rispetto per lei».
Che cos’è l’amore?
«Una parola pericolosa».
Perché?
«È tante cose insieme. Forse troppe».
Proviamo a spiegarle.
«Da ragazzi c’è infatuazione, non amore. È attrazione. Dura pochi mesi, è uno stato d’animo. Una sensazione».
Però l’amore è qualcosa di più profondo.
«E impegnativo. Dell’altro bisogna accettare tutto e non è facile. Amarsi e vivere insieme non sono la stessa cosa anche se molti le confondono. Ma se lo si trova è meraviglioso. Diventa l’intera esistenza».
Ha mai provato questo sentimento totale?
«Più volte, fortunatamente. Ho avuto tre matrimoni. Uno è durato sei anni, un altro quattordici e adesso lo vivo ancora con la mia attuale moglie che mi segue ovunque io vada. Siamo nati nella stessa regione, il Punjab, ma lei è cresciuta in Inghilterra e lì vorrebbe restare».
Invece lei si muove tra India e Italia.
«Due case più simili di quanto possa sembrare».
In che cosa si assomigliano.
«La religione – cattolica in Italia, induista e musulmana in India – ha influenzato l’architettura, la cultura e la vita in generale».
E dal lato umano.
«Italiani e indiani gesticolano quando parlano, hanno una ricca tradizione gastronomica in ogni regione, venerano la mamma più di altre nazioni e sono molto ospitali».
Però qualche anno fa una grave crisi internazionale li ha divisi.
«Credo che avesse ragione Roma. Sono cose che succedono, ora lo strappo si è ricomposto».
È vero che Sandokan è cittadino italiano?
«No, ma è cavaliere della Repubblica».
Prego.
«Sono stato nominato da Napolitano per meriti cinematografici e ho l’onore di promuovere i rapporti fra i due Paesi».
Altre onorificenze.
«Le chiavi di Firenze».
E che cosa ha risposto la Tigre della Malesia quando gliele hanno consegnate?
«Ho chiesto se aprivano qualche appartamento ma mi hanno sorriso ironicamente. Era una battuta, la mia».
Tutti la ricordano come l’eroe di Salgari, eppure lei ha avuto a che fare anche con 007. Chi è più popolare?
«Forse vince Sandokan, ma James Bond è più familiare al pubblico. I suoi film escono puntuali ogni due anni. Ciclici e ricorrenti».
In «Octopussy – Operazione piovra» lei era Gobinda, un vero perfido.
«Ho fatto a botte con Roger Moore e ho perso».
Mai mettersi contro l’agente segreto più amato della letteratura.
«Però ho capito perché continua il filone di 007 anche se sono finiti i libri di Ian Fleming. Prendono un’avventura collaterale e la trasformano in una grande storia».
Si chiama spin off.
«Una produzione mastodontica. La zuffa tra Bond e Gobinda – ovvero tra me e Roger Moore – è stata girata in mezzo mondo. Quando 007 saltava sull’aereo eravamo in India, il nostro scontro è avvenuto nei Pinewood studios in Inghilterra, le riprese del volo sono state fatte in Europa e la mia caduta dal velivolo in America. Tre continenti per una sola scena».
Lei è mai stato cattivo?
«Al cinema ho fatto il crudele e l’eroe. Ho cercato di entrare in entrambe le psicologie e devo dire che tutti avevano buone ragioni».
E nella vita?
«Non credo di essere mai stato cattivo».
Nemmeno quando ha divorziato?
«Ho lasciato donne che ho amato ma i nostri rapporti sono sempre continuati in modo piacevole. Mi sono preso le mie responsabilità e ho dato loro quello che chiedevano».
Perché si è separato?
«Nella vita molte cose cambiano e, quando accade, cambiano anche le persone. Purtroppo».
Qualcuno è mai stato cattivo con lei?
«Molti. Ho incontrato tante persone crudeli, ma non ho mai voluto essere uno di loro».
Li ricorda?
«Preferisco dimenticare i volti negativi».
Che cos’è la cattiveria?
«Il tradimento. Rompere la fiducia di qualcuno che ti ha fatto del bene».
Mancata gratitudine, quindi.
«Quella non me la aspetto mai. È merce rara. Non da uomini. Più facile trovarla negli animali».
Le piacciono?
«Adoro cani e gatti. Ne ho sempre avuti tanti ma ora, trovandomi lontano da casa per molti mesi, non mi è più possibile tenerli perché non potrei portarli con me».
Che cos’è il viaggio per Sandokan?
«Tutta la vita è un viaggio. Speriamo sia il più lungo possibile. Scoprire altri Paesi e altri mondi è la scuola più importante che si possa fare. Io non mi sposto mai solo per lavoro. Ritaglio sempre un periodo per conoscere le culture degli altri. Voglio sentire profumi. Suoni. Luci. Molti miei colleghi non lo fanno. E sbagliano».
Lei ha viaggiato anche nell’antichità indiana con un film – «Mohenjo Daro» – mai arrivato in Italia, nel quale era ancora un cattivo.
«Ero un re che aveva sofferto umiliazioni e cercava rivincite, ma quando ha dovuto abdicare è scoppiato in lacrime. In un sovrano potente si nasconde sempre un bambino che piange».
Oggi esiste uno statista che si commuove?
«Siamo esseri umani, non supereroi. Anche i politici provano il dolore. L’idea del machismo è irreale».
Detto dalla Tigre della Malesia…
«Non bisogna vergognarsi di piangere».
Lei ha mai pianto.
«Molte volte».
Ad esempio?
«Quando è morto mio figlio Siddarth. Quando ho divorziato, anche se c’erano buone ragioni. Ma mi ritengo fortunato, le occasioni di ridere sono state molte di più».
Ironizzando, posso dirle che vedere Sandokan sulla panchina con nonno Libero fa «piangere»…
«La verità è che sono innamorato dell’Italia e cerco pretesti per venire qui. Mi è capitata l’opportunità di Sport movies & Tv e anche Un medico in famiglia».
Una Tigre con Lino Banfi, mi capisce…
«Ero curioso di lavorare con lui, ha uno stile opposto al mio. Poi forse non tutti sanno che Lino improvvisa e io non capisco niente di quella sua parlata».
E come se la cava?
«Gli ho imposto un patto. Lui può dire quello che vuole ma non deve cambiare le ultime parole. Così posso proseguire la conversazione».
La giri come vuole, ma Kabir Bedi è l’ultimo al mondo che possa fare il nonno.
«Ma io sono nonno».
Ma resta Sandokan.
«La tranquillizzo, tornerò presto con un film che ho scritto e prodotto in cui recito una piccola parte. Giriamo in Basilicata. È una commedia. Quel giorno rideremo, vedrà…».
Stefano Giani, Il Giornale