Ron Howard: “La serie Mars è un invito a non ripetere gli errori fatti sulla Terra”

Ron Howard: “La serie Mars è un invito a non ripetere gli errori fatti sulla Terra”

Il regista: «Marte sarà colonizzato, scienza e affari dovranno convivere»

È una delle più interessanti serie dell’ultimo periodo, anche se non così semplice per il pubblico medio perché uscire la parte documentaristica con la fiction.

In onda da due giovedì su National Geographic (per altre quattro settimane), la serie tv Marte racconta la spedizione e l’arrivo della prima colonia sul pianeta rosso. Prodotta da Ron Howard e Brian Graze, è ambientata nel 2038: sono trascorsi cinque anni dalla creazione del primo insediamento marziano. Olympus Town, la colonia fondata dalla International Mars Science Foundation, è ormai un sistema completamente sviluppato. L’agenzia spaziale sponsorizzata dal Governo non può però continuare a finanziarlo e decide di aprire la missione a investitori privati come la Lukrum Industries. Una decisione che comporta l’inizio d’inevitabili tensioni tra gli scienziati e i nuovi arrivati. La sfida è ancora più audace rispetto alla prima stagione, perché prova a rispondere a un quesito molto importante per il futuro della specie: ora che l’umanità ha raggiunto il pianeta rosso, cosa intende farci? Usarlo per fini scientifici o sfruttarlo a scopi economici? Scienza contro profitto, esplorazione contro sfruttamento: quando diventeremo una specie interplanetaria, l’umanità riuscirà a spezzare questa catena o ripeterà gli errori commessi sulla Terra anche nel nuovo mondo?

A fornire una risposta è lo stesso produttore, Ron Howard: «I protagonisti di queste spedizioni su Marte non sono in cerca della semplice scoperta scientifica. Sarebbe naïve immaginare il contrario. Dopotutto anche nel 1500 e 1600 gli esploratori erano finanziati da investitori privati che volevano più risorse e rotte commerciali. Spero però che la serie possa funzionare come metafora perché mostriamo come sia possibile coesistere, trovare accordi, risolvere problemi insieme».

Se nella prima stagione il documentario era utile a spiegare la realtà scientifica dei viaggi interplanetari, nella seconda si concentra su ciò che sta mettendo realmente in pericolo la Terra: lo scioglimento dei ghiacciai, le trivellazioni, l’innalzamento del livello dei mari e le epidemie, conseguenze di comportamenti umani che rischieremmo di replicare anche su Marte. E così ciò che c’è d’inventato in ogni episodio, diventa subito realtà: «Ho studiato a lungo il disastro della Deepwater Horizon ha spiegato la new entry Antonia Juhasz, giornalista investigativa specializzata negli scandali petroliferi che ha contribuito alla scrittura delle nuove puntate – e il processo decisionale che ha portato a quanto accaduto è stato ben sintetizzato dal giudice: la compagnia ha messo il profitto davanti alla sicurezza e questo è quello che accade anche in un nostro episodio. Se continueremo a seguire questo modello, continueremo ad avere lo stesso risultato».

Se c’è ancora qualcuno che pensa che la colonizzazione di Marte sia fantascienza (ci è appena arrivata la sonda InSight), ecco la risposta dello scrittore Stephen Petranek, autore del libro How we’ll live on Mars, su cui si basa la serie: «La specie umana, se vuole sopravvivere, deve diventare interplanetaria. La Terra è destinata a diventare ostile: potremmo essere colpiti da un meteorite o uccisi da una nuova epidemia. Può succedere tra un mese o tra millenni, è vero, ma capiterà e dobbiamo avere un piano B. Spostarci su altri pianeti è necessario. Nella serie tv l’uomo arriva su Marte nel 2033 ma la realtà ci dice che andremo prima, forse nel 2026, e nel 2050 ci saranno laggiù più di 100.000 persone. Elon Musk sta già costruendo il primo razzo che ospita 8200 persone e vuole costruirne migliaia».

Oltre a Musk, stanno progettando razzi Jeff Bezos e Richard Branson così come le agenzie spaziali di Russia, Cina, India, America ed Europa. «Però la conquista dello spazio è in mano alle aziende aggiunge Petranek per questo la tensione tra scienziati e privati è molto realistica. Si risolverà solo se gli interlocutori capiranno che hanno bisogno l’uno dell’altro. È parte della natura umana, della nostra civiltà moderna». Idealismo? «No. Lo definirei ottimismo».

Chiara Bruschi, il Giornale

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