Saviano su La Repubblica di ieri auspica che nelle televisioni pubbliche e private si apra una stagione di rigore (“dare la parola a chi se ne intende e ha qualcosa da dire”). Così attivando un antidoto rispetto al webetismo, neologismo recentemente coniato da Enrico Mentana per indicare i web-ebeti, ovvero i lettori e/o commentatori compulsivi che grazie all’effetto moltiplicatore dei social network, ne bevono e propalano di cotte e di crude, dalle scie chimiche ai complotti Bilderberg. Sicché, dagli e dagli, la scemenza di ieri finisce nell’oggi internettiano con l’assurgere al più rispettabile rango del “dato” e della “opinione corrente” che un tempo, quando a parlare erano solo gli intenditori riconosciuti, era riconosciuto solo ai “dati – sì, ma presupposti – di fatto” e alle “opinioni – sì, ma presupposte – coerenti”. E qui personalmente ci dibattiamo fra due propensioni, entrambe assai forti dentro di noi.
Da un lato relegheremmo volentieri nel mutismo e nell’anonimato i produttori di leggende metropolitane (scie chimiche e Bilderberg a parte, quante volte a Roma, montando su un’auto pubblica, ci siamo dovuti sorbire la storia della moglie dell’allora sindaco Rutelli voluttuosamente avvinghiata al business dei taxi. E c’è voluto l’arrivo di Uber-spazza-licenze per imporre problemi più concreti di quelli inventati dal pettegolezzo clientelare). Ma vedendo la cosa da una angolazione diversa, non possiamo evitare di pensare che la produzione di leggende al tempo di Internet non sia altro che l’aggiornamento tecnologico della fabbrica di miti anti razionali e anti elitari che da sempre ha prosperato in qualsiasi epoca e società. Miracoli, protettori ultraterreni, stregoni e indovini non nascevano (e non nascono) e non prosperano da sempre nel mercato dell’indimostrabile, quello dove ognuno può candidarsi a profeta di qualcosa?
E siccome l’indimostrabile è un modo pieno di risorse e che a modo suo soddisfa il bisogno di dare un senso al mondo, non ci pare possibile che i media lo ammutoliscano, specie i social, che sono media di relazione tra punti, dove ognuno disegna il suo territorio e dove ogni svitato può metterci e trovarci del suo, appartandosi con i propri simili rispetto al resto del mondo. Ma proprio il carattere molecolare e gassoso dei media-punti-a-punti rende grande come non mai la responsabilità dei media punto-a-punti, e cioè dei vecchi broadcaster della radio e tv generaliste, nel porre in primo piano i dati di fatto e le dimostrazioni e nel tagliare le chiacchiere narcisistiche (cioè gran parte di quanto hanno praticato negli ultimi dieci anni a forza di talk show abbaianti quanto interminabili), selezionando di conseguenza, come propone Saviano, ospiti e argomenti. Più che un andare contro corrente un navigare dentro la corrente, ma col timone in mano. Difficile da farsi, quanto obbligatorio proporselo.
Perché è vero che ci perdiamo su Internet, ma è anche vero che davanti alle tv prima o poi ci passiamo e che comunque in Internet va a finire molto di quel “l’ha detto la TV” che fra tutti i generatori di notizie e impressioni è tuttora il più potente per estensione e coralità. E così aspettiamo l’autunno ormai prossimo per vedere se i broadcaster non si vergogneranno dei loro pulpiti o se continueranno a inseguire i social nei loro confessionali.
Stefano Balassone, il Fatto Quotidiano