(di Carmine Castoro, rx Il Messaggero) Trasmette una strana serenità, figlia della nostra rabbia di tele-spettatori manipolati mitigata da una legittima nostalgia del glorioso passato di “mamma Rai”, rivedere il volto di Jader Jacobelli, indimenticato padre delle “Tribune Politiche”, che, in un filmato inedito curato da Umberto Casella, parla in pochi grani di intelligenza informativa di come si può e si deve amministrare un dibattito fra leader di vari partiti davanti a una telecamera, sottolineando che il Pannella col bavaglio sulla bocca tanti anni fa fu un’ottima dimostrazione che “il silenzio è talvolta più significativo della parola”, e che le grosse tematiche istituzionali, portate in uno studio tv, non devono né essere noiose, né “troppo divertenti” come adesso.
Colpisce e lascia un vulnus nel nostro corredo genetico di figli dello zapping. Soprattutto se confrontiamo questa lezione di “moderazione”, super partes e improntata a neutralità e sobrietà, alle gazzarre dei talk politici dell’oggi dove, nella migliore delle ipotesi, regna indisturbato un cicerone che impone il suo ego, nella peggiore, un pollaio di galli impazziti, una sarabanda di capetti e androidi programmati per il caos acustico e la spavalderia più turpiloquiante. Spesso entrambi: un conduttore narciso e una platea di impettiti acchiappa-share pronti all’ultima sciabolata.
Dopo il prezioso documento di Jacobelli, si è parlato proprio della valenza sociale di queste vecchie/nuove frontiere della comunicazione politica nel dibattito organizzato ieri dal Rotary Club di Roma all’Hotel Parco dei Principi in collaborazione con Rai Senior. Con il coordinamento di Gianpiero Gamaleri, professore ordinario di sociologia della comunicazione e già consigliere di amministrazione della Rai, all’incontro sono intervenuti fra gli altri la conduttrice televisiva Eleonora Daniele, Gian Piero Jacobelli, direttore della rivista “MIT-Technology Review Italia”, che ha rievocato la figura del padre, e il consigliere Rai Rodolfo De Laurentiis, presidente di Confindustria Radio Televisione, associazione che riunisce il 90 per cento delle emittenti italiane.
“Come è possibile che democrazie consolidate, che prendiamo ad esempio, come quella inglese, francese o tedesca, abbiano solo un quarto dei talk show politici televisivi che abbiamo noi?” si è chiesto Maarten van Aalderen, corrispondente del quotidiano olandese De Telegraaf e fino a pochi giorni fa presidente della Stampa Estera in Italia, altro ospite della serata. La sua esperienza su fronti geografici lontani è stata particolarmente chiara e netta poiché – ha detto – “qui in Italia si parla molto, troppo, di politica, ma con il loro comportamento i politici rischiano di diventare non famosi, ma famigerati. Si urla tantissimo, come ossessi, si interrompe in continuazione, si assiste a una rissosità insopportabile, e tutto questo merita un risoluto cambiamento di rotta”.
“Una risposta a tutto questo malvezzo c’è, ed è che sono i programmi che hanno il minor costo orario”, ha replicato Giuseppe Feyles, coordinatore dell’intrattenimento Mediaset e già direttore di Rete 4, che ha arricchito la discussione nel parterre con precise analisi di tipo aziendale sul perché questo tipo di show siano particolarmente scelti nei palinsesti. “Sono format rapidi, sintonizzati all’istante sugli umori dell’audience – ha precisato -, convenienti da un punto di vista industriale, importanti per l’affermazione identitaria di una rete televisiva, disposti a figliare, cioè a creare sottospecie di altri programmi che fidelizzano lo spettatore. Il problema è vedere se di fronte a tanta abbondanza di offerta corrisponda una garanzia di libertà di scelta. L’asino di Buridano è morto con due soli mucchi di frumento vicino…”.
Insomma, che deputati, senatori e illustri opinionisti si accaniscano dietro le inferriate de La Gabbia come leoni inferociti, o vicino ai plastici e al maggiordomo di Porta a Porta, nel cantiere permanente del Servizio Pubblico santoriano, o in tante altre agorà post-democratiche del nostro fin troppo sgangherato e livellato carrozzone catodico, il talk politico è, non solo abusato come strumento di pseudo-informazione sulle questioni più scottanti all’ordine del giorno, ma surriscalda e fonde senza distribuire reale conoscenza al pubblico da casa proprio perché troppo controversiale, troppo conflittuale, o – rovescio della medaglia – troppo convenzionale, allegrotto, pieno di convenevoli ed esorcistiche pacche sulle spalle a chi ha incarichi di Stato e dovrebbe sentirsi sul banco degli imputati e non su comode poltroncine da vip di Palazzo.
Soprattutto in questo secondo caso, l’iper-realistico brainstorming che viene messo in scena davanti alle telecamere si fonda proprio sulle caratteristiche del conduttore stesso che, secondo la brillante analisi che faceva anni fa lo studioso Francesco Casetti, deve “esibire cortesia, spigliatezza, amichevolezza, tranquillità, sicurezza”, tratti pseudo-temperamentali grazie ai quali “può tramutarsi da direttore di scena in interlocutore privilegiato, da maestro delle cerimonie in uomo di casa, da piazzista di programmi in possibile amico del cuore. Ma dove vanno a mirare queste “qualità”? L’obbiettivo è uno solo: la fiducia. Esse infatti tendono a far sì che chi le possiede venga visto come fededegno. Su entrambi i fronti: in quanto fedele interprete di una certa linea che si emette; e in quanto meritevole di confidenza per chi riceve. Il conduttore, sia per l’uno che per gli altri, è appunto l’”uomo di fiducia” per eccellenza… Una fiducia che si confonde con la simpatia: come appunto quest’ultima, essa si dà guardando ai tratti esterni dell’individuo, e la si toglie senza troppi drammi. Una fiducia senza interiorità; una fiducia quotidiana”.
L’empatia trasformata in destrezza, le doti fisiche in autorevolezza del detto e profondità di pensiero, l’aspetto duro della discussione condotta in studio nell’imminenza di una soluzione alle emergenze affrontate fra i vari interlocutori: sono questi gli aspetti di una problematica comunicativa complessa che fa dire ancora a Casetti, teorico della “grammaticalizzazione”, in modo perentorio, che “la televisione, che pure assume il quotidiano come proprio modello, diventa a sua volta modello del quotidiano”, e che il suo target non sono “cose di cui parlare, ma il semplice parlare; non l’intendersi su dei contenuti, ma il semplice intendersi”.
Una giostra che gira a vuoto, insomma, seppur vorticosamente, senza passeggeri, e forse senza nemmeno manovratori. Il peggio, per un popolo in affanno e bisognoso di certezze come il nostro.