Reed Hastings guida la più importante tv via Internet . «Entusiasta per l’Oscar al documentario sulla Siria»
«No, non ho mai incontrato Beppe Grillo – dice Reed Hastings -. Ma so bene chi è, ho deciso di scommettere sul suo show». La scommessa di Grillo vs Grillo, secondo il Ceo di Netflix, è vinta, anche se sui dati di ascolto mantiene un riserbo che resiste all’atmosfera rilassata e al vino tinto che sta bevendo. Occhi azzurri, capelli bianchi, pizzetto grigio, Hastings sembra uno sportivo a riposo. Invece è un ex marine che si è arruolato volontario nelle missioni di Pace, ha insegnato Matematica in Africa e si è laureato in Informatica a Stanford.
È a Barcellona per il Mobile World Congress, la più importante fiera mondiale della tecnologia in movimento: ma che c’entra la tv via Internet con gli smartphone? «Sempre più persone li usano per seguire film e serie, specie tra i ragazzi e in Paesi come l’India, dove i dati su rete cellulare costano molto», spiega. Gli schermi degli smartphone diventano sempre più grandi, supportano l’Hdr Video, una tecnologia che permette la riproduzione ottimale dei colori. Per le connessioni lente, Netflix ha perfezionato una compressione che permette di avere video di ottima qualità con copertura scarsa o rete lenta. E ora gran parte del catalogo si può scaricare e vedere offline.
Ieri YouTube ha annunciato lo storico traguardo di un miliardo di ore di video viste ogni giorno: «Tutta la tv passerà per Internet fra 10 o 20 anni», prevede Hastings. Che non ha paura dei concorrenti, come Google, la Bbc che ora arriva anche online, o Prime Video, il servizio streaming di Amazon da poco in Italia. Men che meno Vivendi-Mediaset: «Guardo al futuro, non al passato: i miei concorrenti sono tutte le app su smartphone, in particolare Facebook e Snapchat». A differenza della musica, che si può ascoltare anche facendo altro, il video richiede un’attenzione esclusiva. Allora il futuro di film e serie passerà per la realtà virtuale, che isola da tutto il resto? «Non credo. È difficile mantenere l’attenzione per due ore senza interruzioni. Per ora continuiamo sulla nostra strada».
Quest’anno Netflix investirà sei miliardi di dollari nel mondo per la produzione di contenuti. Film, serie tv, show e documentari, come The White Helmets, sulla drammatica situazione della Siria, che ha vinto l’Oscar: «Siamo entusiasti – è il commento di Hastings -. Fra poco lanceremo 13 Reasons Why, che narra il percorso verso il suicidio di una ragazza tredicenne. Vado fiero di questa serie, affronta con onestà un tema difficile, apre lo spazio al confronto di idee». Ma come sceglie di investire su un progetto? «Non facciamo tante indagini di mercato, proviamo e impariamo dagli errori; ho visto troppi fallire per non aver rischiato abbastanza». Rischierebbe con una serie tv su Trump? «Si parla troppo di politica, la gente comincia a esserne stanca, non ci sarà una House of Cards ispirata a lui, dovranno passare almeno dieci anni».
Netflix è disponibile in 190 Paesi e ha 93 milioni di abbonati; il numero di chi la usa sale se si considera che spesso diverse persone accedono con un solo account («Lo so, non mi sembra un gran problema», commenta Hastings). Spende un miliardo di dollari l’anno in ricerca tecnologica, lavora con i costruttori di tv e smartphone, stringe accordi con gli Internet provider, inventa soluzioni come i mini-server da mettere il più vicino possibile agli utenti per garantire uno streaming senza interruzioni. A vederli sono scatole di metallo rosse, piatte e lunghe; in ognuna è registrato l’intero catalogo. Lo streaming è arrivato nel 2007, prima Netflix era un servizio di noleggio dvd via posta: «È ancora attivo, quest’anno ne abbiamo spedito cinque milioni», ride Hastings.
Oggi la sua azienda è la più grande Internet tv del mondo, anche se ha i bilanci in rosso per gli enormi investimenti degli ultimi anni. Lui non è preoccupato: «Farei quello che faccio anche se non guadagnassi un solo dollaro», dice. Invece a Los Gatos le paghe sono più alte della media e le ferie sono a volontà: «Non contiamo le ore di lavoro, perché dovremmo contare i giorni? La burocrazia deve essere ridotta al minimo, vogliamo che la crescita dell’azienda non soffochi il talento di chi ci lavora».
Bruno Ruffilli, La Stampa