Consacrata dai social ma non per questo cheap, ecco il ritratto di chi ha scritto la celeberrima frase “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”
Un moderno adagio recita più o meno così: “La vita è quella cosa che ti accade mentre sei impegnato a fare progetti”. E quali sono le cose di tutti i giorni? Magari l’angolo che svolti, la chiave che infili nella toppa, l’amore mancato di poco, quello incontrato per una strada che altrimenti mai avresti preso, il curriculum da presentare a un colloquio di lavoro in cui condensare anni di vita per potersi far accettare.
Insomma, le piccole cose che ci placano (o affondano con poco) l’esistenza e celebrate da una delle poetesse più straordinarie e semplici (laddove per semplicità si intende il più alto grado di complimento per chi pratica il difficile mestiere della poesia) e di cui oggi ricorrono i dieci anni dalla morte: Wisława Szymborska.
Nome impronunciabile e fino a pochi anni fa sconosciuto ai più fino a che, complici i social, “la Wislawa” ha iniziato, in virtù proprio di quell’immediatezza che tanto l’ha contraddistinta, a conquistare anche i lettori più acerbi e distanti dal mondo della poesia. E non pensiamo avrebbe disdegnato questo piccola pseudo deriva nazional popolare: poetessa del semplice, appunto, poetessa alla portata di tutti e perciò ancora più rara. Versi semplici, chiari e dritti, sul filo dell’ironia nell’intricato rapporto con il momento nostalgico che prende un po’ tutti noi sul finire della giornata.
E proprio nell’agone social che vede spendere il suo nome a suon di citazioni seconde solo alla nostra Alda Merini, è arrivata la consacrazione vera: perché la poesia è vicina, la poesia non può e non deve essere lontana, ma balsamo e sorriso (malinconico, anche) per chi la legge e ci si imbatte, fosse anche con la celeberrima frase “Ascolta come mi batte forte il tuo cuore”, chiusura di “Ogni caso”, versi per eccellenza sulla circostanza fortuita e gli accidenti – e incidenti – del destino.
Ma non solo. Questa piccola donna, di cui circolano online foto che la ritraggono ormai anziana, sorriso beffardo e occhio brillante e curioso, tanto ha scritto anche sulla celebrazione della vita stessa. Prendiamo “Curriculum vitae”, altra poesia social e mainstream, ma tanto diretta al nocciolo della questione: l’imputato – lavoratore che si pone alla disamina di chi deve graziarlo con un lavoro o spingerlo indietro al mittente: “Di tutti gli amori basta quello coniugale, e dei bambini solo quelli nati (…). Scrivi come se non parlassi mai con te stesso e ti evitassi”. Eccola, “la Wislawa”, dritta al centro e – pum! – siamo tutti colpiti e affondati con poche parole piazzate per caso ma con mira da cecchino. Semplicità, appunto: “Aggiungi una foto con l’orecchio in vista. È la sua forma che conta, non ciò che sente. Cosa si sente?”. Benedetta ironia attraverso cui commentare tutto.
La vita
La Treccani ci racconta Wisława Szymborska come “Poetessa polacca (Bnin, Poznań, 1923 – Cracovia 2012). Muovendo dall’osservazione del quotidiano, S. costruisce una poesia intellettuale e riflessiva, che s’interroga sulla condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, contrapposto ed estraneo al mondo della natura. Nel 1996 ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura e la sua produzione trova ampia diffusione anche in Italia”. È questo il suo curriculum, tanto per riallacciarci a quanto scritto sopra?
È nel 1996, quando ha già compiuto 73 anni che il nome inizia a circolare. Perché così è la vita, il dio delle piccole (grandi cose): a volte accade che arrivi un premio Nobel a illuminare chi, nel silenzio del proprio quotidiano, da sempre lavora nel suo, arte o scienza che sia. Ed ecco che a metà degli anni novanta il raggio dell’apertura al grande pubblico porta alla luce “la Wislawa”, una signora poetessa di cui fino ad allora si sapeva ben poco.
La vita di questa signora e di cui girano su internet foto con rughe sapienti – e per questo accattivanti – cappellino rosso calcato con aria sbarazzina in testa, facile non è stata: la sua infanzia e adolescenza sono funestate dallo scoppio della seconda guerra mondiale. La giovane Wisława è costretta a proseguire gli studi in clandestinità diplomandosi nel 1941 per poi conquistare, nel 1943, un lavoro come dipendente delle ferrovie. Carta fortunata per evitare la deportazione in Germania in qualità di lavoratrice forzata, tanto più che nello stesso periodo inizia anche la sua carriera artistica dedicandosi a illustrare un libro scolastico in inglese per poi iscriversi, nel 1945, alla facoltà di letteratura per poi passare a quella di sociologia, ma senza terminare mai gli studi a causa di problemi economici. Ha però la fortuna di incontrare il saggista e poeta Czeslaw Milosz, Premio Nobel per la letteratura nel 1980, che la coinvolge nella vita culturale della capitale polacca. Si impiega come illustratrice e segretaria presso una rivista bisettimanale e nel 1948 si sposa: matrimonio breve, sei anni appena. Quindi una seconda unione con lo scrittore e poeta Kornel Filipowicz.
La sua prima poesia, “Cerco una parola”, viene pubblicata nel 1945 su un quotidiano; sono anni in cui ogni scritto deve passare il vaglio della censura. Ma “la Wisława”, come molti altri intellettuali in quel periodo, abbraccia l’ideologia socialista partecipando in modo attivo alla vita politica del suo Paese e aderendo al Partito Operaio Polacco, fino al 1960, anno in cui ne prese le distanze ideologiche da lei stessa definite “Un peccato di gioventù”
Alterna l’attività poetica, baciata dalla fortuna nel 1957 con la raccolta “Appello allo yeti”, con il lavoro di redattrice presso la rivista “Vita Letteraria” sulla quale pubblica una serie di saggi “Letture facoltative” poi riprese in un volume. Nello stesso periodo collabora anche alla rivista “Kultura”, curata da immigrati polacchi a Parigi.
Il resto è storia e lavoro del quotidiano, del solido, fino appunto al raggio del Nobel e al volano di questi amati – e maledetti – social. D’altronde anche lei diceva che la poesia “Piace – ma piace anche la pasta in brodo; piacciono i complimenti e il colore azzurro, piace una vecchia sciarpa, piace averla vinta, piace accarezzare un cane”. La vita, appunto, tra un progetto e l’altro.